Gli indagati non occupano più le posizioni che ricoprivano un tempo. Si sono dimessi. Eppure, per il gip di Milano, Mattia Fiorentini, che ha accolto la richiesta di misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta sull’Urbanistica, il rischio che i soggetti coinvolti possano reiterare il reato è ancora presente. Lo abbiamo raccontato ieri, ma una riflessione è d’obbligo. Sebbene la giurisprudenza abbia più volte ribadito che le dimissioni non annullano automaticamente il pericolo di reiterazione, resta aperto un interrogativo di fondo: come giustificare un arresto per tale motivo, se lo stesso indagato è stato lasciato libero per sei giorni prima dell’applicazione della misura? In quel lasso di tempo, infatti, avrebbe potuto facilmente occultare prove, contattare altri soggetti coinvolti o concordare una strategia difensiva. La differita applicazione della misura cautelare solleva, pertanto, forti dubbi sulla sua effettiva necessità. Ciò che emerge è una possibile finalità punitiva, più che preventiva, un tentativo di affermare la colpevolezza prima che la responsabilità sia accertata.

Ma non è tutto. Durante gli interrogatori preventivi, nessuno degli indagati ha ammesso l’esistenza di quel “sistema” di corruzione che rappresenta il cuore dell’inchiesta. Il loro silenzio, o la dichiarazione di innocenza, pur interpretato come una difesa legittima, è stato però inteso anche come una conferma della solidarietà implicita al meccanismo illecito che si intendeva scoperchiare. Così, il rifiuto di collaborare è divenuto un segno di appartenenza al sistema stesso. E il fatto che nessuno si dissoci – nonostante l'indagine non sia ancora chiusa – finisce per alimentare la lettura collettiva della colpevolezza. Il gip, infatti, scrive che il comportamento degli indagati contribuisce a “mantenere e difendere” la struttura dell’illecito. Ma questo approccio è problematico: il silenzio o la negazione della colpevolezza, in un sistema giuridico che dovrebbe rispettare la presunzione di innocenza, viene assimilato a un’ulteriore prova contro gli indagati.

Questa visione sembra contraddire apertamente quanto stabilito dall’articolo 274, comma 1, lettera a, del codice di procedura penale, che chiarisce come il rifiuto di ammettere le proprie responsabilità non possa costituire un motivo valido per applicare una misura cautelare. Una norma introdotta in seguito all’esperienza di Tangentopoli, con l’intento di impedire che la privazione della libertà fosse usata come strumento per forzare le confessioni come accaduto in quel periodo. Se il principio alla base di questa norma viene ignorato, si corre il rischio di tornare indietro, ripristinando una logica che subordina la libertà individuale alla collaborazione con l’accusa.

La questione assume una portata ancora maggiore quando si considera il carattere anticipato della misura cautelare. Come ha giustamente osservato il professor Giorgio Spangher in un articolo pubblicato ieri su questo giornale, si sta assistendo a un “processo a trazione anteriore”, dove il contraddittorio – che tradizionalmente si sviluppa nel dibattimento – viene spostato nella fase cautelare. Una misura che non solo anticipa il giudizio di colpevolezza, ma che crea già un clima di condanna nei confronti degli indagati. Il provvedimento emesso dal gip di Milano non è più solo una misura di garanzia, ma una vera e propria sentenza anticipata. E come dimostrano le prime pagine dei giornali di ieri, che pubblicano i nomi e le foto degli indagati trattandoli come già colpevoli, il rischio è che la misura cautelare diventi un’arma di stigmatizzazione mediatica, prima ancora che un provvedimento giuridico.

Quello che emerge con chiarezza è che il sistema delle misure cautelari sta assumendo un ruolo sempre più pervasivo e decisivo, anticipando il processo, sfumando i confini tra indagine e condanna, e alimentando un clima di sospetto che rischia di travolgere non solo gli indagati, ma anche il diritto a una difesa equa e a una presunzione di innocenza che dovrebbe essere garantita a priori. La questione, dunque, non riguarda più solo la validità di una misura cautelare, ma il principio stesso che sta alla base del nostro sistema giudiziario: la separazione tra l’indagine e la sentenza, tra l’inquisizione e il diritto a difendersi.