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Anche l’ultimo dei “figli cattivi” dello Stato non c’è più. Dopo Bernardo Provenzano e Totò Riina, e poi anche Raffaele Cutolo, ex capo della Nuova Camorra organizzata, anche Matteo Messina Denaro se ne è andato. Anche lui per morte “naturale”, per quanto normale possa essere sopravvivere per anni nel regime speciale previsto dall’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.
Vite vissute pericolosamente con gravi responsabilità di omicidi e stragi. Poi morti con le manette al polso, sia pure in reparti ospedalieri, protetti e isolati. A Messina Denaro è stato consentito di morire con dignità, di stendere un testamento biologico, di chiedere e ottenere che non si infierisse sul suo corpo con accanimento terapeutico e di poter passare dalla vita alla morte con una sedazione e cure palliative che lo accompagnassero. Ha avuto vicina la figlia, cui non ha voluto mostrarsi nel degrado fisico delle ultime settimane, e anche altri familiari. Ha avuto maggior fortuna dei suoi “colleghi” e dei loro parenti, costretti a vedere corpi ormai in stato vegetativo trattati come fossero ancora pericolosi e quindi trattenuti in isolamento totale da una sorveglianza assurda e crudele. Ma, se lo Stato e la sanità hanno avuto un comportamento misericordioso nei confronti di chi non lo fu con le proprie vittime, l’accanimento dell’antimafia militante non dorme mai. E pare ora riversarsi sul contorno, sulle vere o presunte complicità che avrebbero consentito al capo (ammesso che lo fosse davvero) di Cosa Nostra di sfuggire alla giustizia per trent’anni.
Lui stesso ha contribuito con un po’ di vanteria alla costruzione del mito della primula rossa. Se non mi fossi ammalato, ha detto ai magistrati, non mi avreste preso mai. Così dando l’occasione di una sorta di gogna collettiva di paese, quella che in queste ore sta calando sulla città di Castelvetrano quasi fosse abitata solo da mafiosi con le porte aperte ad accogliere il boss. Capofila si mostra una volta di più il quotidianoLa Repubblica che, nella sua edizione di Palermo, mette “tra i complici anche l’ex senatore D’Alì”.
Ma complice di che cosa? Delle stragi? Alla vergogna non c’è mai limite. L’ex parlamentare di Forza Italia Tonino D’Alì sta scontando da quasi un anno con molta dignità nel carcere di Opera una pena ingiusta per l’evanescenza di un “concorso esterno” radicato solo dal suo luogo di nascita e dalle proprietà terriere della sua famiglia. Così, con la logica dell’arrendersi mai, gli orfani del processo “trattativa Stato-mafia”, ovunque siano oggi collocati, nelle redazioni, nei tribunali o in Parlamento, paiono aver bisogno della sopravvivenza di qualche mafia per poter continuare a militare nel partito dell’antimafia.
Non si rassegnano al fatto che lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. E si stanno già arrovellando a capire chi sarà il “successore” di Messina Denaro, che prenderà il suo posto a capo di Cosa Nostra. Peccato però che quella Cosa Nostra, quella di Riina e Provenzano non esista più. E lo stesso Messina Denaro probabilmente non ne era più associato da tempo.
Ma c’è un altro elemento, per quanto esile, che pare tenere ancora insieme quella che Sciascia chiamava “la mafia dell’antimafia”. Ed è l’angosciosa domanda: quali segreti ha portato con sé nella tomba l’ex capo dei corleonesi?
Come se, in tutti questi anni, non ci fossero stati inchieste e processi, e schiere di “pentiti” pronti a sciorinare le loro verità, non sempre credibili, ma spesso utili a ricostruire i fatti più tremendi come le stragi. O vogliamo riaprire il processo “trattativa” sotto le mentite spoglie dei “segreti” di Matteo Messina Denaro? Certo, l’aggancio giudiziario c’è, anche se ultimamente pare essere in sonno il traffico di veline e spifferi ai cronisti di riferimento. Parliamo dell’inchiesta-fisarmonica della procura di Firenze, quel fascicolo che si apre e chiude come se non avesse termini di scadenza. Quello che con molta fantasia ancora tiene inchiodato Marcello Dell’Utri, ma anche Silvio Berlusconi, almeno nelle citazioni giornalistiche, anche dopo che non c’è più. Quello che abbiamo lasciato con la procura che chiedeva di arrestare il gelataio giocoliere Salvatore Baiardo e i giudici che si opponevano e i pm che insistevano fino alla cassazione.
Non dimentichiamo che questo personaggio aveva esordito nella trasmissione di Massimo Giletti “Non è l’arena” proprio indovinando, con due mesi di anticipo, che Messina Denaro, di cui da un po’ di tempo si diceva fosse malato, sarebbe stato arrestato. O meglio, che avesse interesse a lasciarsi prendere. Intuizione?
O più probabilmente millanteria di un millantatore di professione? Ora non ci resta che attendere i segugi di Repubblica, del Fatto e di Domani. E di tutti quelli che hanno bisogno che ci sia la mafia perché possa sopravvivere una certa antimafia. E che non vogliono seppellire Matteo Messina Denaro, tenendolo in vita artificialmente con i suoi “segreti”.