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VITTORIO MANES DOCENTE UNIVERSITA BOLOGNA
Professor avvocato Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, la Costituzione assegna una posizione preminente al principio di umanità, presupposto imprescindibile per la finalità rieducativa, stabilita dalla seconda parte della disposizione. Come si riflette questo principio nelle condizioni carcerarie italiane, specie in tema di sovraffollamento e suicidi?
Il principio di umanità delle pene è un valore primordiale per la civiltà del diritto, prioritario e pregiudiziale rispetto a tutti gli altri principi: afferma che lo Stato non può mai rispondere al crimine replicando alla violenza con la violenza, alla brutalità con la brutalità, al sangue col sangue, e non deve mai “abbassarsi” al livello del reo, anche dell’autore del crimine più spregevole e efferato. In questo consiste la differenza qualitativa tra “pena” e “vendetta”: una differenza fondamentale nel percorso di civilizzazione della giustizia penale, di cui lo Stato deve essere appunto il primo custode. Ed è vero, venendo ai rapporti con la finalità rieducativa ed alla sua domanda, che nessun progetto di risocializzazione può essere credibilmente perseguito se non si rispetta il canone di umanità: un canone dal quale sono profondamente distanti le condizioni attuali delle carceri italiane, con un tasso di sovraffollamento medio ufficiale che supera il 120%, ma che in realtà ha ormai raggiunto il 130%. Carcerati rinchiusi come bestie in una stia, senza lenzuola e talvolta senza acqua potabile. E la conferma più drammatica di queste condizioni inumane viene proprio dalla drammatica emergenza dei suicidi, il 90 % dei quali, non a caso, è occorsa in penitenziari sovraffollati.
Come descriverebbe l’attuale disallineamento tra la realtà carceraria e i principi sanciti dalla Costituzione italiana?
Come uno iato doloroso e difficilmente colmabile, che segna un profondo arretramento culturale e civile del nostro Paese: perché i livelli di civiltà di una nazione si possono giudicare aprendo le porte delle sue prigioni. Ed è a mio avviso irrisorio – e persino illusorio – pensare che questo problema possa risolversi solo costruendo nuove carceri. Il sovraffollamento è come un termometro che segna la febbre, una patologia che non si cura con i piani di edilizia penitenziaria: bisogna adottare misure strutturali di intervento a monte, ed intervenire – per così dire – sulla patogenesi.
La pena non è inflitta solo al singolo, ma anche alla sua cerchia affettiva, costretta a subire le conseguenze di quella detenzione pure senza colpa. In che modo lo Stato può mitigare questa ulteriore sofferenza?
La pena, ed in particolare la pena privativa della libertà, è purtroppo il più delle volte una esperienza non individuale o singolare ma collettiva, investe tutta la comunità di appartenenza e la cerchia di relazioni del soggetto, ed anzitutto il suo nucleo familiare ed affettivo. Il carcere produce tutta una serie di “effetti collaterali” su soggetti indirettamente colpiti dalla detenzione dell’autore: basti pensare ai figli minori, soggetti particolarmente vulnerabili che spesso sono coinvolti e travolti dalla vicenda custodiale di un genitore, particolarmente se si tratta di figli in tenera età con madre detenuta. Non considerare questi effetti significa, ancora una volta, ammettere una pena con tratti disumanizzanti, che finisce solo con l’acuire l’antagonismo dei protagonisti – e dei terzi coinvolti – con il sistema.
In che modo si possono valutare istituti come il 41 bis o la stessa pena dell’ergastolo alla luce del principio di umanità della pena?
L’ergastolo pone da sempre problemi di compatibilità con il canone di umanità, e già in seno all’Assemblea costituente ci si domandava che senso avesse aver abolito la pena di morte quando si era scelto di “conservare quella morte in vita che è la pena dell’ergastolo”. Del resto, la reclusione perpetua – secondo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo – può essere ritenuta legittima nella sua previsione astratta solo se essa risulta in concreto riducibile, de iure o de facto, ossia solo se la legge preveda il periodico riesame della continuazione dell’esecuzione della pena, verificando l’evoluzione del percorso trattamentale del reo: e ciò perché al reo non può mai essere negato il “diritto alla speranza”, e, aggiungerei, il diritto a cambiare e a riprogettarsi in direzione diversa rispetto alla esperienza negativa che ha segnato il suo percorso. Mi pare però comunque una posizione compromissoria ed insoddisfacente: e credo che sia davvero giunto il tempo di cancellare senza se e senza ma la pena perpetua – strutturalmente inumana e incompatibile con ogni progettualità risocializzativa - dal tariffario punitivo del nostro codice. Quanto al regime speciale del “carcere duro”, il famigerato “41 bis”, fa riflettere già il fatto che una misura originariamente emergenziale e derogatoria sia nel tempo diventata del tutto ordinaria; ed anche qui a me pare che le limitazioni che la caratterizzano pongano notevoli criticità al cospetto dell’art. 27 Cost.. Del resto, la stessa Corte costituzionale ha decretato l’illegittimità del divieto di cottura dei cibi per i soggetti sottoposti al regime speciale, ritenendola appunto una inutile vessazione, che nulla ha a che vedere con l’esigenza di impedire i collegamenti del boss con le organizzazioni criminali di origine, e sottolineato che anche chi si trova ristretto secondo le modalità di tale regime speciale “deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. Parole molto luminose, che si auspica trovino seguito in decisioni ancor più coraggiose: perché molte limitazioni – siano esse connesse o meno all’esigenza di impedire i contatti con le “cosche” - hanno di per sé tratti disumanizzanti, ed andrebbero come tali ritenute illegittime.
Esiste un legame tra il fenomeno del populismo punitivo e la marginalizzazione del principio di umanità?
Esiste un legame molto forte, ed affonda le radici in una profonda crisi culturale: nel lessico della politica, purtroppo sempre più trasversale ai diversi partiti e diffuso nella società civile, l’idea di fondo – tanto ingenua quanto fuorviante - è quella di rispondere ad ogni problema o irritazione sociale attraverso il diritto penale, aumentando le pene, aumentando il ricorso al carcere. E si evoca il carcere inteso – sempre più - come luogo di marcescenza, e non di recupero del reo: una discarica sociale dove segregare il reo - come fosse una “vita di scarto” - e “buttare la chiave”. Nella civilissima Italia di Cesare Beccaria si sente spesso parlare anche di pene “crudeli”, come la castrazione chimica, e si dimostra una triste assuefazione alle pene infamanti, come la gogna mediatica. Sono solo esempi di una casistica ben più vasta: ma mi pare evidente, dunque, la matrice culturale del fenomeno, e la distanza siderale dal canone di umanità.
Perché la Corte costituzionale appare restia a valorizzare esplicitamente la prima parte dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione?
Forse perché è un principio indubbiamente impegnativo, imponendo un divieto perentorio ed inderogabile, e perché è sempre difficile stabilire oggettivamente, in via generale e astratta, un limite oltre il quale un determinato trattamento possa dirsi “disumano”. Ma forse anche perché altri principi, come lo stesso principio rieducativo, consentono un maggior margine ai bilanciamenti, e quindi permettono alla Corte percorsi argomentativi più articolati e duttili. Ma il problema è che spesso questi bilanciamenti sono compromissori, ed impediscono una presa di posizione più netta, e decisa, contro le molte e conclamate violazioni al principio di umanità: come proprio lo stato delle carceri testimonia. Del resto, non è casuale che l’intera comunità dei giuristi – Anm, Ucpi e Associazione italiana professori di diritto penale - abbia denunciato unanimamente questo stato impossibile, con una denuncia ribadita, con toni condivisibilmente molto allarmati, proprio ieri dalla Camera penale di Bologna.
Il ministro Nordio ha recentemente proposto una revisione della custodia cautelare come soluzione al sovraffollamento. Molti, come Edmondo Bruti Liberati, Mauro Palma e Patrizio Gonnella, hanno definito insufficiente una tale soluzione. Cosa ne pensa?
Il problema dei detenuti in custodia cautelare è certamente significativo, occupando oltre il 20% della popolazione carceraria, e una “stretta” sulla possibilità di applicare la misura custodiale è senza dubbio urgente, anche e soprattutto per garantire il rispetto del principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, tanto più decisivo al cospetto della presunzione di innocenza. Ma l’overcrowding penitenziario, e più in generale il problema di assicurare condizioni di umanità alle carceri, è un problema ben più ampio, radicato e articolato, ed ha – per così dire – una patogenesi multifattoriale, sulla quale bisognerebbe agire alla radice: restituendo il carcere ad una dimensione di effettiva extrema ratio, dalla quale siamo molto, molto lontani.
Quali riforme legislative o culturali sarebbero necessarie per riportare il principio di umanità al centro del sistema penale italiano?
Anzitutto, partendo dal principio che la giustizia può realizzarsi ed appagarsi appieno solo dando voce all’umanità della pena. E muovendo da questo principio di “umanesimo penale” rivedere, via via, tutto il sistema, provvedendo ad una drastica riduzione dei reati, riformando il sistema delle pene in astratto, rivedendo i meccanismi di deflazione e commisurazione della pena in concreto, sino a riformare i diversi istituti penitenziari che attraversano la fase dell’esecuzione della pena.