Il capo del governo non è vincolato ad andare avanti quand’anche avesse i numeri per la fiducia

Vale a dire la permanenza di una stessa maggioranza rispetto a quella che ha sostenuto sinora l’esecutivo. E allora, prima ancora del voto, sale al Colle confermando le proprie dimissioni.

3. Consacrate le dimissioni del governo il Presidente della Repubblica, preso atto che non ci sono alternative e non potendo imporre al presidente del Consiglio di accettare una nuova formula di maggioranza ( senza i Cinquestelle) scioglie le Camere rinviando tutti alle elezioni in autunno.

4. Malgrado le dichiarazioni in senso opposto di questi giorni, si conviene invece sulla necessità di formare un nuovo governo che assicuri, con pieni poteri, la transizione verso la scadenza naturale della legislatura. Un governo verosimilmente affidato a una personalità di rilievo istituzionale che contenga i contraccolpi dello strappo nel drammatico contesto economico, sanitario e geopolitico attuale. 5. Draghi si convince che è per lui accettabile un governo con una maggioranza sufficiente, ma senza Cinquestelle, e si rende disponibile a guidare un Draghi- bis, anche magari registrando qualche “novità politica” che gli consenta di far cadere le pregiudiziali sino ad oggi avanzate.

Com’è evidente, dietro a ognuno di questi possibili percorsi formali, ci sono scelte politiche dei vari soggetti coinvolti le cui reciproche combinazioni danno luogo a innumerevoli variabili.

Cominciamo dai Cinquestelle e da Conte. Il primo problema è se si tratti della stessa cosa. Il Movimento ha già subito una scissione, in larga misura motivata dalle stesse ragioni che sono dietro alla crisi attuale. Nessuno può dire se quella sia stata l’ultima. E ovviamente lo scenario si complica se nell’algoritmo si inserisce anche la possibilità di nuove emorragie. Un movimento unito intorno al leader ha infatti due opzioni: rompere o ricucire, magari a seguito di un negoziato che consenta di incassare qualche beneficio politico anche in vista delle alleanze elettorali ( il “campo largo” non sembra compatibile con il perseverare nella rottura).

La prospettiva si complicherebbe, invece, se il Movimento si spaccasse ulteriormente. Sia perché i calcoli di Conte e dei pentastellati restanti ne risentirebbero ( le dimensioni del Movimento dissanguato dalle scissioni ovviamente conterebbero nella decisione tra restare e rompere), sia perché la pregiudiziale di Draghi potrebbe cadere se le file dei grillini ( divenuti ex grillini) disposti a restare in maggioranza aumentassero significativamente.

Un secondo fondamentale player di questo risiko è ovviamente il Presidente Draghi. La sua posizione appare al momento netta. Stando almeno a quanto egli stesso ha reso chiaramente noto, per l’attuale Presidente del consiglio esiste solo una formula di esecutivo, quella dell’attuale governo Draghi, con la maggioranza politica che lo ha sostenuto dall’inizio.

Si può politicamente opinare se la nettezza di tale posizione sia condivisibile o meno, ma non fino al punto di ritenere che, costituzionalmente, il presidente del Consiglio sia tenuto a rimanere tale anche di fronte a un mutamento politico della propria maggioranza, quand’anche tale mutamento non lo privasse dei numeri necessari per ottenere la fiducia. Il dovere di titolare di un munus publicum arriva fino al punto di dover assicurare comunque l’ordinaria amministrazione in caso di dimissioni, ma non a quello di accettare la fiducia di una maggioranza parlamentare che, a torto o a ragione, non ritiene politicamente sufficientemente, per attuare il proprio programma.

Ciò detto, non si deve dimenticare che le regole del suo ingaggio sono state fondate, sin dall’inizio, su una disponibilità a “servire il paese” e che, dunque, delle condizioni del paese non potrà non tenere conto. Per questo motivo è verosimile che le pressioni per un suo ripensamento continueranno a crescere e che di fronte all’allarme per il precipitare della situazione quel ripensamento ci possa essere. Rafforzato, magari, da qualche novità che modifichi, più o meno sensibilmente, il quadro.

Le posizioni di Draghi e Conte sono certamente quelle da cui dipende l’ampiezza del perimetro delle soluzioni possibili. La loro speculare rigidità o flessibilità è sicuramente una condizione decisiva per l’evolversi della situazione.

Un ruolo però ovviamente verrà giocato da parte del Pd e da parte di Lega e Forza Italia, gli altri partner di governo. Il primo si trova in evidente difficoltà rispetto alla strategia su cui il suo segretario aveva sinora lavorato in vista delle elezioni. E la possibilità dell’alleanza con i Cinquestelle è sicuramente una prospettiva che non può essere ancora abbandonata e sostituita con una contrapposizione frontale. È certo pertanto che il protagonismo del partito democratico alla ricerca di una soluzione conciliativa è destinato a crescere in queste ore.

I partiti del centro- destra, dal canto loro, poco sembrano poter fare per favorire una riconciliazione tra le parti. La collocazione politica tendenzialmente alternativa a quella di Pd e Cinquestelle, oltre che un indubbio interesse pragmatico al deterioramento dei rapporti tra questi ultimi due partner, li mettono oggettivamente ai margini della trattativa.

Ciò non vuol dire che anche da quelle parti non si facciano calcoli di convenienza. Ma perché tali calcoli determinino conseguenze sulla situazione, indirizzandola verso scenari più irreversibili, non bastano calcoli e abboccamenti o ipotetiche manovre occulte. È necessaria l’assunzione di posizioni esplicite che si riflettano sui numeri parlamentari, che cioè sottraggano sostegni a questo o ad altri possibili governi. Sarebbe un ulteriore fronte di questa complessa vicenda.

Ma, almeno finora, nulla di tutto ciò è avvenuto, con buona pace degli appassionati di dietrologia.