Le ultime due sessioni di lavoro dell’evento “Portare il carcere nella Costituzione” hanno acceso i riflettori su una serie di temi delicati: il lavoro in carcere, il reinserimento nella società degli ex detenuti, l’abbassamento della recidiva, la protezione e la rieducazione dei minori negli istituti penali.

La prima tavola rotonda è stata moderata da Giovanni Negri, giornalista del Sole 24Ore. I dati, che poggiano su una base scientifica tutta da verificare, ma con una fonte autorevole, il Cnel, testimoniano un significativo abbassamento della recidiva per i detenuti che lavorano. Chi non ha, invece, un contratto di lavoro non rientra nel novero dei virtuosi e l‘ombra della recidiva incombe sempre più inquietante. Parlare di recidiva e di lavoro significa occuparsi di parti rilevanti del nostro ordinamento penitenziario. Gli “stati generali dell’esecuzione” penale hanno rappresentato, qualche anno fa, con l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando (Pd), una base di partenza che però non è stata più presa in considerazione.

Debora Serracchiani, deputata e responsabile Giustizia del Partito democratico, ha sottolineato quanto siano importanti alcuni interventi nei confronti di determinate categorie di detenuti. «Il carcere, per il Partito democratico – ha detto Serracchiani -, è una priorità. Non a caso abbiamo voluto intitolare una nostra iniziativa “Bisogna aver visto”, mutuando il titolo di un testo di Piero Calamandrei del secolo scorso.

A fronte delle poche risorse, a fronte dell’aumento dei reati, a fronte del fatto che entrano in carcere detenuti che non dovrebbero essere ospitati lì, mi riferisco a chi ha problemi psichiatrici e ai tossicodipendenti, se si vuole abbattere la recidiva bisogna investire risorse nella formazione per agevolare l’inserimento sociale. È questa la strada per avviare percorsi di reinserimento e recupero sociale. Non ci possono essere solo dei ritocchi, come il beneficio premiale di liberazione anticipata. Serve una strategia che non può essere limitata a dei ritocchi».

Alessio Scandurra dell’associazione Antigone ha fatto riferimento all’altalena di dati che riguardano i detenuti coinvolti in attività lavorative e che rappresentano una minuscola parte della popolazione carceraria. «La situazione attuale – ha affermato è scoraggiante. Quando si parla di opportunità di lavoro in carcere, si citano alcuni dati che vanno considerati con cautela. Si fa riferimento a circa 2.500 detenuti in semilibertà che lavorano presso datori privati. Non è l’imprenditore in questo caso che entra in carcere». La Lombardia e il Veneto sono le regioni in cui è più diffuso il ricorso ai lavoratori detenuti.

Secondo Gaetano Scalise della Camera penale di Roma, occorre un «cambiamento di rotta a più livelli». «Le nostre carceri - ha rilevato - non sono degne di un Paese civile. Per il recupero del reo e il reinserimento sociale la politica deve fare azioni concrete. Solo così si può evitare la recidiva». Infine un appello alla politica: «Maggioranza e opposizione lavorino insieme per rendere il carcere un luogo di recupero».

Un altro penalista, Valerio Murgano (componente della giunta dell’Unione Camere penali) ha voluto ricordare la condizione di chi è recluso in attesa di giudizio. Murgano ha invitato a riflettere e a non considerare l’universo carcerario un “mondo a parte”.

La tavola rotonda è stata chiusa dall’intervento di Francesco Favi (consigliere Cnf), che ha lodato l’iniziativa del Dubbio per il livello degli interventi e la costante attenzione rivolta al sistema carcerario. «La foto del carcere che esce oggi - ha detto l’esponente dell’avvocatura istituzionale - è devastante. Allo stesso tempo, insistere sul lavoro come meccanismo di recupero consentirà di aprire nuovi scenari».