LA REPLICA

Caro Direttore, invidio molto le certezze granitiche di Alessandro Barbano, le sue sentenze inappellabili e definitive nei confronti delle mie posizioni ( del Pd) sul delicato tema dell' ergastolo ostativo.

A «No, Barbano: sei tu a bocciare senza appello chi tiene insieme sicurezza e umanità della pena»

Caro Direttore, invidio molto le certezze granitiche di Alessandro Barbano, le sue sentenze inappellabili e definitive nei confronti delle mie posizioni ( del Pd) sul delicato tema dell’ergastolo ostativo. Altro che presunzione di non colpevolezza! Sentenza già scritta. Capi d’accusa? “Fariseismo di partito”, “capitolazione all’egemonia forcaiola”, “barattare la solidarietà per un pugno di voti”. Eppure l’intervento di Barbano è ospitato da un giornale che nella testata reca queste due parole: “Il Dubbio”. Categoria, predisposizione d’animo e di pensiero di cui non c’è traccia, però, nell’articolo. Che qualche risposta e confutazione, naturalmente, merita. Un primo dubbio glielo instillo subito. Scrive Barbano: “È singolare che su quest’esito ( riforma deell’ergastolo ostativo, ndr) convergano tutti i partiti, compresi Italia Viva e Forza Italia, cioè le forze politiche ( a suo dire, ndr) più sensibili alla difesa dei diritti e delle garanzie”. Ora, è vero che non sempre le maggioranze hanno avuto e hanno ragione, ma il fatto che tutti i gruppi ( di diversa e perfino opposta ispirazione) si siano ritrovati su una proposta di sintesi e mediazione non lascia - almeno - il dubbio di essere magari nella condizione di quel signore che si trova ad imboccare contromano l’autostrada imprecando perché tutti gli altri procedono contromano?

Nello scritto si distingue tra coloro che stanno all’ergastolo ostativo in quanto boss di mafia e “tanti altri”. Bene: per i “tanti altri” che non sono boss di mafia, non dovrebbe essere un problema soddisfare le condizioni poste dalla riforma, non avendo avuto e non avendo legami con la criminalità mafiosa. Per quanto riguarda i boss mafiosi, è stata la Corte costituzionale stessa con la sua pronuncia a scegliere di non intervenire rimandando al Parlamento. Ciò, proprio rilevando la straordinaria delicatezza della materia in relazione alla mafia e le connessioni tra i diversi istituti che servono a prevenirla e contrastarla. Da parte della Corte, dunque, nessuna sottovalutazione ma ferma conferma della pericolosità del fenomeno.

Da qui si può arrivare al punto tenuto fermo dalla Corte medesima e cioè la pericolosità in capo al mafioso che non collabori con la Giustizia. Come valutare l’attenuazione di questa pericolosità senza legarla alla collaborazione con la Giustizia ( che, detto per inciso, era per Falcone l’unica condotta oggettiva apprezzabile dallo Stato essendo l’unica pienamente in grado di dimostrare la rottura avvenuta con l’organizzazione criminale)? Come valutarla, dicevamo, considerando che il vincolo con l’organizzazione mafiosa quasi sempre viene meno solo con la morte ( basti riflettere sul fatto che Cosa nostra attese la morte di Riina per cercare un nuovo capo, benché Riina abbia trascorso in carcere, senza mai collaborare, gli ultimi 25 anni)? La proposta che arriva all’esame dell’aula, sulla quale ha lavorato un Comitato ristretto in cui per il Pd stava un parlamentare capace come l’Avvocato Miceli, ha individuato una risposta non perfetta, ma che cerca di andare in una direzione equilibrata e coerente con quanto stabilito dalla Corte. Mi riferisco alla prova ( a carico del detenuto che chiede l’accesso ai benefici) che proprio quei legami siano venuti meno e che non sia possibile ripristinarli. È davvero una “prova diabolica” come la definisce Barbano? La Commissione, nella sostanziale unanimità, ha ritenuto possa essere una richiesta verificabile e ragionevole che attiene all’universo criminale e sociale dal quale il soggetto proviene. In cambio della libertà, non sarà impossibile dimostrare che gli antichi sodali- complici non ci sono più, perché a loro volta detenuti o morti o pentiti, perché l’organizzazione è stata smantellata e così via. Sarebbe al contrario curioso pensare che la Corte abbia voluto spingere il Legislatore in un’altra direzione: quella di smontare gli argini di un fiume, faticosamente eretti a seguito di una devastante alluvione, con l’argomento che ormai non piove più come una volta. Argomento ( ostativo a parte) in sé molto pericoloso: perché la mafie sparano meno, ma penetrano di più. Nelle istituzioni, nella finanza e nell’economia, nei sistemi di welfare che organizzano laddove lo Stato è assente, nelle acquisizioni di proprietà, azionariati di imprese in crisi, riciclando capitali illeciti e così via. Tentando di accaparrarsi lavori pubblici di oggi e di domani. Per questo apro una parentesi: bene semplificare e velocizzare, ma ciò non può avvenire a scapito di trasparenza e legalità. Tutte queste cose devono stare insieme.

Non mi pare, inoltre, che la riforma travolga il concetto di collaborazione impossibile introdotto nel 2014, che anzi sopravvive e continua a definire un percorso ulteriore di superamento della ostatività. La riforma, del resto, riguarda coloro che non hanno collaborato e la cui collaborazione non era impossibile. Certo, coltivando io il dubbio, non ho affatto la certezza che questa riforma sia la migliore possibile. Ma dovevamo e dobbiamo tenere insieme due esigenze sociali e costituzionali. Il principio civile del rispetto fondamentale della pena senza trattamenti degradanti e disumani, come recupero e reinserimento, con la sicurezza dei cittadini, della società. Insieme, non in antitesi. Per questo il testo che probabilmente si approverà a breve alla Camera tiene conto di diverse problematiche, comprese quelle legate ad uno stretto rapporto tra magistrati e Tribunali di sorveglianza con le strutture dell’ordinamento giudiziario preposte al contrasto delle mafie. Queste possono contribuire a fornire elementi importanti circa il permanere o meno di legami associativi.

Su una cosa sono d’accordo con l’articolo di Barbano: qualsiasi persona, dopo tanti anni, non è la stessa che commise un reato, anche il più grave. Per questo sono un convinto sostenitore di una politica dell’ordinamento penitenziario molto legata all’articolo 27 della Costituzione. Nel mio piccolo cerco anche di praticare questa linea in Parlamento e visitando gli Istituti. Anche con gesti simbolici, come l’ormai pluriennale iscrizione a “Nessuno Tocchi Caino”. O avendo fatto approvare nell’ultimo Milleproroghe un emendamento a mia firma per evitare che i detenuti in semilibertà dai tempi dell’esplosione di Covid nelle carceri tornassero - a fine mese - a dormire in cella dopo la giornata di lavoro esterno. Per questo ho salutato e difeso l’indicazione prima e la nomina poi di Carlo Renoldi a Capo del Dap. Anche quando altre forze sparavano contro.

Nelle carceri ci vuole una radicale ventata di cambiamento. Investire in umanità, lo ripeto, significa non solo rispetto della Costituzione ma anche della sicurezza della società. Chi, dopo una pena scontata in carcere, esce rieducato, difficilmente torna a delinquere.

Insomma, su questi temi occorrono, a mio giudizio, radicalità di principi e concretezza possibile e realistica delle soluzioni. Personalmente ho votato in Commissione la proposta sull’ostativo del relatore ( significativamente diversa dall’originale testo base) per questi motivi e perché convinto dal lavoro dei nostri rappresentanti nel Comitato ristretto. Ma devo dire che al mio convincimento hanno contribuito anche audizioni di personalità di notevole spessore. Anche qualche Procuratore ( non tutti) o ex- Procuratori. Barbano li definisce “militanti”. Quelli che conosco io li ho visti militare contro il terrorismo, le mafie, la criminalità organizzata. Non tutto quello che dicono o scrivono si può e si deve condividere. Ma, quelli che conosco io ( per quello che vale, ho stimato il lavoro degli Spataro, dei Caselli e stimo quello di Cafiero de Raho) più sono stati o sono autorevoli nel loro lavoro più in genere sono equilibrati e non portatori di posizioni estremizzanti.