Forse è arrivato il momento di sostituire il termine “garantismo” con quello di “legalità”, cioè il rispetto della norma e delle regole, a garanzia dei diritti dei cittadini. Quel criterio per cui i processi li fanno il giudice, il pm e l’avvocato e non la pubblica opinione o i tribunali del popolo. E il giornalista ha il dovere di informare, possibilmente con distacco, senza farsi complice delle toghe, come invece sempre accade. Ma anche senza avere la pretesa di quel “controllo democratico sul processo”, invocato da Alessandro Barbano per spiegare il suo dissenso sul voto del Parlamento in favore dell’emendamento del deputato Enrico Costa che vieta la pubblicazione del verbale delle ordinanze di custodia cautelare.

Barbano vorrebbe promuovere il giornalista al ruolo di “ancella della giustizia” e del “controllo democratico” sullo sviluppo dei processi. Come se ogni giorno questo ruolo di “cane da guardia” della democrazia non si sia invece risolto, proprio attraverso la pubblicazione passiva del documento ufficiale del giudice, nella compartecipazione complice della violazione del principio di non colpevolezza e di violazione della privacy con conseguente danno di reputazione. La verità è che, proprio tramite quella pubblicazione, il ruolo del cronista si è ridotto a quello di voyeur gaudente delle disgrazie altrui. Ma sarebbe ancor più pericoloso se ogni cronista avesse la pretesa di assumere un ruolo attivo nelle inchieste giudiziarie. Né complice né controllore. Ma rispettoso dei diritti dell’indagato.

È pur vero che la Costituzione valorizza, insieme a principi fondamentali come quello di non colpevolezza e del giusto processo, quello della libertà di stampa. Ma insieme anche il diritto alla riservatezza e tutela della privacy per ogni cittadino. Non sono principi confliggenti, e andrebbero rispettati tutti. Prima di tutto da coloro che rivestono ruoli istituzionali, nel rispetto della divisione dei poteri. Nessuno dei quali è legittimato a controllare gli altri. Il Parlamento fa le leggi e i magistrati le applicano. La stampa informa. Punto.

Non esiste un principio costituzionale che consenta alle toghe quel che molti loro sindacalisti continuamente invocano, e cioè il “controllo di legalità”. La legalità consiste nell’applicazione della norma, e non è scritto da nessuna parte che il magistrato si debba trasformare in controllore della moralità pubblica, in sacerdote o sociologo o storico. Allo stesso modo il giudice che nel processo penale emette la sentenza parla con la bocca della legge. In rappresentanza del popolo, certo, ma non in compagnia del popolo, da cui ha ricevuto una delega. Il suo modo di interpretarla negli ultimi tempi piace sempre meno, specie se si discosta da quel tribunale della pubblica opinione in cui si è trasformato il processo, specie nella sua parte che dovrebbe essere più riservata, quella delle indagini preliminari.

I due soggetti che hanno da tempo trasformato il processo in uno spettacolo costruito non per accertare responsabilità ma per costruire un abito di disapprovazione morale addosso all’indagato, sono il magistrato e il giornalista. Se c’è un provvedimento di custodia cautelare del gip, la sua pubblicazione, con tanti bei virgolettati che mostrano come il cronista “abbia in mano” l’ordinanza, è lo strumento perverso del processo-show. È ordinaria amministrazione, non eccezione. Tutti noi che abbiamo un passato o un presente di cronista giudiziario sappiamo quanto sia importante il pezzo di carta. La carta canta, diceva quel simpaticone di Tonino Di Pietro. Ma che musica intona, questa benedetta carta? Ipotesi, tesi e opinioni dell’ufficiale di polizia giudiziaria, prima di tutto, costruiti sulla base principalmente di intercettazioni. Il travaso di questo materiale sulla scrivania del pm è automatico e altrettanto lo è, troppo spesso, su quello del gip. Che dovrebbe essere “terzo”, perché è pur sempre un giudice, anche quando lo dimentica. Prassi quotidiana, non eccezione. E il giornalista si accoda.

E non è vero quel che dice l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in un’intervista di ieri alla Stampa, e cioè che i casi di pubblicazione delle ordinanze del gip che hanno danneggiato la reputazione di cittadini poi assolti o neanche indagati sono pochi e precedenti alla riforma Orlando che ha “liberalizzato” la pubblicazione degli atti riservati. Sarebbe sufficiente dare un’occhiata per esempio a un po’ di giurisprudenza dei tribunali calabresi.

Citiamo solo un caso, ma potremmo aggiungere i nomi dell’ex presidente della regione Mario Oliverio o del vertice del consiglio regionale Domenico Tallini. Parliamo del signor Giuseppe, arrestato nell’inchiesta “Basso profilo”, quella che aveva coinvolto anche l’innocentissimo Lorenzo Cesa, leader dell’Udc. Le intercettazioni, copiate dall’ordinanza di custodia cautelare che danneggiavano gravemente la reputazione del signor Giuseppe avevano invaso i giornali. Ma non era lui, quella voce non era la sua e faticosamente l’avvocato era riuscito a ottenere una perizia fonica che lo dimostrasse e lo facesse scarcerare. Faticosamente, perché un altro problema di questi processi del popolo è che il difensore, l’altra gamba, destra o sinistra, oltre al pm, del triangolo processuale che vede il giudice al vertice, è spesso considerato più un complice del proprio assistito che non un “soggetto insostituibile” di garanzia dell’equilibrio tra la parti, come ha ricordato di recente il presidente del Cnf Francesco Greco.

Perché questo è il processo, regole e garanzie. Ma deve essere “freddo” nelle sue regole, senza che vi si introducano soggetti spuri come il controllo dell’opinione pubblica o dei giornalisti. Lasciamo ad altre follie della storia i “tribunali del popolo”. E lasciamo sulla scrivania del giudice la sua ordinanza, le notizie potremo darle lo stesso, come abbiamo sempre fatto.