«Ho detto che Anghinolfi ( Federica, ex responsabile del servizio sociale della Val d’Enza, ndr) mi aveva ingannato in quanto gli inquirenti mi hanno prospettato una certa ricostruzione dei fatti nel senso dell’esistenza di un appalto a favore di Hansel & Gretel e io intendevo dire che se era così ne ero all’oscuro e non rispondeva agli atti. (Gli inquirenti, ndr) Non mi hanno parlato di co- progettazione». Sono parole che pesano come un macigno quelle di Iuri Menozzi, responsabile del Servizio economico- finanziario dell’Unione della Val d’Enza, che ha aggiunto un pezzetto del puzzle alla vicenda relativa al presunto abuso d’ufficio contestato per la realizzazione del centro “La Cura” e del servizio di psicoterapia di Bibbiano.

Parole pronunciate nell’ambito del processo del lavoro instaurato dopo il licenziamento di Anghinolfi - cacciata via dopo l’arresto nell’indagine sui presunti affidi illeciti - e finite, ora, nel processo “Angeli e Demoni” in corso a Reggio Emilia, su richiesta degli avvocati Rossella Ognibene e Oliviero Mazza. Parole che, insieme a quelle degli altri testi convocati in sede civile dai difensori di Anghinolfi - difesa in quel caso da Ognibene e Marco Ferri - fanno emergere ora un’altra verità. Confermando anche un altro elemento: «Non c’erano all’interno dell’Asl psicoterapeuti specializzati per il trattamento del trauma per maltrattamento e abusi», come chiarito, tra gli altri, da Gaddomaria Grassi, il massimo dirigente del settore della psichiatra dell’Asl all’epoca in servizio a Reggio Emilia. Tale assunto è stato negato dalla procura, secondo cui la sanità pubblica avrebbe avuto le forze necessarie per offrire le cure alle vittime di trauma. E secondo cui la scelta di rivolgersi alla onlus di Claudio Foti, lo psicoterapeuta assolto in abbreviato da tutte le accuse, sarebbe stata frutto di un accordo finalizzato a far guadagnare lo stesso Foti tramite costose terapie.

Ma a smentire tale circostanza sono gli stessi addetti ai lavori, che in più occasioni hanno evidenziato la necessità di attingere a risorse esterne e, nello specifico, a quelle della onlus di Foti, «scelta dall’Asl, anche perché era il top di gamma», ha spiegato un’altra teste, la pediatra Elena Ferrari. «Non avendo strumenti per affrontare la psicoterapia del trauma a noi pediatri e agli psicologi hanno fatto della formazione (...). A mio parere questi incontri sono stati molto importanti», ha aggiunto, ricordando anche il caso di una bambina che, per cinque anni, non era uscita di casa e non si era tolta i pantaloni del pigiama per colpa di un trauma che era stato trattato per anni da psicoterapisti dell’Asl anche con farmaci «pesanti» senza alcun risultato. Il caso venne poi “risolto” in un anno e mezzo da Nadia Bolognini, una delle psicoterapeute della onlus oggi a processo a Reggio Emilia. Un aiuto che la madre della bambina ricompensò, per riconoscenza, comprò gli arredi del progetto “La Cura”. Ferrari ha inoltre sottolineato che «in quel periodo, negli anni 2015- 2016- 2017, non c’erano psicoterapeuti Asl per il trattamento specialistico della cura del trauma per minori vittime di maltrattamenti e abuso e ciò in tutta la provincia di Reggio Emilia. Noi operatori abbiamo insistito molto per avere questo tipo di trattamento perché era una grave mancanza».

Il contrario di quanto affermato nelle imputazioni formulate dalla pm Valentina Salvi, secondo cui i pazienti venivano sottratti «alle pubbliche e gratuite cure offerte dalla Asl di Reggio Emilia». Salvi, nel corso dell’udienza di ieri, si era opposta al deposito di questo verbale e dei documenti relativi alla co-progettazione, incontrando, però, le ' resistenze' dell’avvocato Mazza, a cui si è unito l’avvocato Giovanni Tarquini, difensore di Carletti, che ha sottolineato come, ai sensi dell’articolo 238, comma quattro, del codice di procedura penale, i verbali di altri procedimenti possono essere utilizzati con il consenso dell’imputato. La Corte ha dunque dato ragione alle difese, acquisendo i verbali prodotti dalla difesa Anghinolfi, dai quali è emersa, dunque, l’esistenza di una procedura di gara alla base della creazione del servizio di assistenza psicologica e che la cura del trauma non era un servizio offerto gratuitamente dall’Asl, tanto che per assolvere al dovere di cura dei minori in assenza di terapeuti Asl l’Unione dei Comuni fu costretta a rivolgersi a privati, tramite una procedura di co- progettazione adottata sulla base delle norme speciali del settore “servizi sociali”. Procedura della quale, a sommarie informazioni testimoniali, gli inquirenti non fecero menzione con Menozzi, che di fronte ad una presunta gara d’appalto non poteva fare altro che affermare di non sapere nulla. In realtà, stando ai documenti, vi era un preciso atto di indirizzo da parte dell’Unione - una delibera di Consiglio del 29 luglio 2016 - al quale Anghinolfi si è attenuta, dandone esecuzione. Un procedimento amministrativo certificato da numerosi atti, a partire dalla delibera 42 del 6.05.2016, dove espressamente si faceva riferimento alla necessità di approntare un luogo finalizzato alla assistenza psicoterapeutica verso i minori, e finendo con la delibera 92 del 16.09.2016, dove espressamente si ratificava l’accordo multilaterale avente ad oggetto il progetto di creazione di un luogo finalizzato all’accoglienza e cura dei minori.

Menozzi - che ha anche redatto il verbale della seduta di Consiglio dell’Unione Val d’Enza del 29 luglio 2016, dando parere di regolarità finanziaria - ha ammesso di aver firmato i mandati di pagamento, nei quali era presente a chiare lettere il riferimento alla psicoterapia, smentendo, dunque, l’assunto in base al quale egli era all’oscuro degli stessi. «Ritengo legittimi i rimborsi della psicoterapia - ha dunque evidenziato -. Il Servizio sociale liquidava la spesa, con la firma della responsabile dottoressa Anghinolfi, la mia segretaria del servizio finanziario predisponeva il mandato di pagamento che io firmavo controllando la copertura della spesa rispetto al bilancio, ma senza entrare nel merito della spesa».

Ieri, in aula, avrebbe dovuto anche essere sentita M. C. C., affidataria della piccola A., il cosiddetto “caso pilota”. La donna, accompagnata da un avvocato, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, dopo che la Corte presieduta dalla giudice Sarah Iusto - a latere Michela Caputo e Francesca Piergallini -, a inizio anno, aveva accolto la richiesta della difesa dell’assistente sociale Annalisa Scalabrini - rappresentata dagli avvocati Cinzia Bernini ed Elisabetta Strumia - di indicare la testimone come possibile concorrente, almeno in astratto, nel reato di falso ideologico contestato a Scalabrini e Anghinolfi.

Per le giudici, infatti, dalle mail prodotte dalla difesa risulta in modo chiaro la corrispondenza tra le dichiarazioni di A. - riportate dall’affidataria a Scalabrini - e le parti della relazione indicate come false dall’accusa e trasfuse nel capo di imputazione. Stando all’accusa, gli assistenti sociali avrebbero rappresentato falsamente il miglioramento dello stato emotivo di A. a seguito dell’affido, lasciando intendere che dopo l’allontanamento la bambina aveva superato i propri limiti sul tema delle autonomie e migliorato il proprio regime alimentare. Ma la difesa di Scalabrini ha tirato fuori dai device sequestrati alcune mail e messaggi vocali, che dimostrerebbero come fu la affidataria M. C. C. a informare Scalabrini sui dichiarati di A. circa le proprie abitudini di vita prima dell’allontanamento e sui miglioramenti che la stessa affidataria aveva potuto apprezzare.

Tra gli elementi valorizzati dalla Corte ci sono due mail - una dell’ 8 ottobre e una del 12 novembre 2018 - nelle quali la donna riferiva a Scalabrini del tentativo della bambina di «recuperare gli anni che a detta sua» avrebbe passato «seduta sul divano, davanti ad un tablet, mangiando fino a scoppiare». Parole sulle quali ieri la donna ha preferito tacere.