Dòn (Giulietta Banzi Bazoli), dòn (Livia Bottardi Milani), dòn (Clementina Calzari Trebeschi), dòn (Alberto Trebeschi), dòn (Euplo Natali), dòn (Luigi Pinto), dòn (Bartolomeo Talenti), dòn (Vittorio Zambarda). Otto tocchi di campana, uno per ogni vittima della strage di Brescia, rimbombano come un tuono cupo su Piazza della Loggia. E le lancette del tempo non possono che fermarsi alle 10.12 del 28 maggio 1974, il momento esatto in cui una bomba neofascita esplose in piazza lasciando sul selciato brandelli di esseri umani, colpevoli di aver partecipato a una manifestazione sindacale contro le violenze nere in città e nel Paese.

A cinquant’anni di distanza Brescia aspetta ancora una giustizia piena per quella strage. E oggi, come cinquant’anni fa, «la Repubblica italiana è Brescia, è Piazza della Loggia, è questo teatro», dice il capo dello Stato Sergio Mattarella, prendendo la parola al Teatro Grande, dopo aver deposto una corona di fiori in piazza, tra i cittadini. Poco prima, sullo schermo allestito in sala, è stato proiettato 10 e 12, un docufilm costruito su filmati e fotografie restaurate a mano di quel 28 maggio 1974 e dei giorni successivi. Immagini, voci e suoni che restituiscono tutto il dolore di uno sfregio mai sanato.

«Tutti gli italiani che, nel 1974, erano cittadini consapevoli ricordano, in maniera indelebile, quella orribile giornata, a partire dalle prime, incerte notizie della mattina. Fino alla drammatica conferma, alla diffusione dei particolari e alla straziante contabilità delle vittime», dice il presidente della Repubblica, tenendo a scandire i nomi di ogni singola vittima e a rendere omaggio alla forza e alla determinazione dei familiari. Mattarella ricorda anche la risposta democratica che Brescia seppe dare all’intimidazione fascista, quando il «terrorismo nero decise di alzare il livello di azione criminale». Un’azione che ha lasciato una lunga scia di sangue nel Paese ben riconoscibile: «La stessa matrice eversiva, lo stesso disegno criminale, fu dietro a chi aveva piazzato ordigni o lanciato bombe a Piazza Fontana, a Milano, nel 1969, a Gioia Tauro nel luglio del 1970, a Peteano, nel 1972, alla Questura di Milano nel 1973. E che, dopo la strage di Brescia, continuò a praticare quella strategia della tensione, provocando nuovi spaventosi spargimenti di sangue innocente sul treno Italicus, a pochi mesi dalla strage di Piazza della Loggia, poi a Bologna nel 1980 - la più grande strage del terrorismo neofascista - e ancora, nel 1984, a San Benedetto Val di Sambro», dice Mattarella, facendo attenzione a non dimenticare nessuna delle tessere di un puzzle che a partire dalla fine degli anni 60 ha minato l’esistenza della Repubblica con la complicità di alcuni «traditori dello Stato». Episodi diversi «legati dall’unico filo dell’eversione nera e tutte caratterizzate da una difficile ricerca della verità storica e giudiziaria, ostacolata da inaccettabili depistaggi, errori e inefficienze».

Ma la lentezza della verità non significa rinuncia alla verità. «Le diverse sentenze che hanno riguardato la strage di Piazza della Loggia hanno complessivamente chiarito il quadro, delineando con precisione responsabilità, dinamiche e complicità. Di recente, si è aperto un nuovo filone di inchiesta, dal quale potrebbero emergere nuovi tasselli. Attendiamo con paziente fiducia perché la verità è un pilastro della democrazia», dice ancora il capo dello Stato, che poi si rivolge ai giovani e alla loro sete di risposte immediate, con una efficace e garbata lezione di cosa sia lo Stato di diritto: «La risposta dello Stato democratico nella lotta al crimine e nel fare giustizia - vorrei dirlo soprattutto ai ragazzi presenti - può apparire talvolta lenta. Certo, è sempre auspicabile una risposta tempestiva, per quanto possibile rapida, ma, quel che va ricordato, perché fondamentale, è che essa rispetta le garanzie dello Stato di diritto: questo conferisce solidità e affidabilità». Non può esserci giustizia senza garanzie. Persino a Brescia.