Una sentenza storica che obbligherà forse l’Italia anche a rimettere mano a un po’ di accordi bilaterali. La Libia «non è un porto sicuro», secondo la Corte di Cassazione, che ha condannato definitivamente il comandante del rimorchiatore Asso 28 che a luglio del 2018 prese a bordo 101 migranti arrivati su un gommone li riportò in Libia consegnandoli alla Guardia costiera di Tripoli.

Consegnare ai librici dei naufraghi  è reato, per la suprema Corte, perché Consegnare migranti ai libici è reato di «abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone».

Una vittoria per le Ong che si sono sempre rifiutate di riportare in Libia le persone salvate in mare, ignorando gli ordini della Guardia costiera di Tripoli. «Dalla Corte di Cassazione arriva una sentenza inequivocabile, la Libia non è un porto sicuro e chiunque consegni alle autorità libiche le persone salvate è perseguibile. Crolla il castello di carte costruito dalle politiche italiane ed europee che hanno istituzionalizzato la pratica dei respingimenti collettivi con l'accordo con la Libia del 2017», commenta Sea Watch Italia. «In casi recenti - ricorda l'ong -, le navi della società civile sono state punite ingiustamente con fermi e sanzioni attraverso la 'legge Piantedosi', che vorrebbe imporre il coordinamento con la cosiddetta Guardia costiera libica, oltre a ridurre la presenza delle ong in mare. Ci aspettiamo che questo precedente abbia risvolti concreti». Per Sea Watch, dunque, dopo la sentenza della Cassazione devono «decadere le sanzioni e i sequestri delle navi umanitarie motivati dal mancato coordinamento con i libici e devono essere messi seriamente in discussione gli accordi Italia-Libia. È ora di dire basta alla complicità con la Libia nella violazione dei diritti umani. Non basta, inoltre, identificare la responsabilità di un capitano, che rischia di essere il capro espiatorio di politiche che fanno della delega delle proprie responsabilità sul soccorso in mare alla Libia una pratica affermata, in aperto conflitto con il diritto internazionale», conclude l’ong.