L’espressione non è solo una bolsa metafora giornalistica e ce lo fa capire il direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma Giuseppe Ippolito che ieri incontrando la stampa ha parlato apertamente di «guerra dei vaccini». Un conflitto cruciale, in cui «l’Italia deve entrare da protagonista perché non dobbiamo essere servi di altri Paesi».

È curioso vedere uno scienziato che alza le barricate del sovranismo sanitario, parlando come un soldato sul fronte dello scontro globale per arrivare “primi” nella corsa vaccino contro il Covid 19. E dire che appena tre mesi fa Francia, Italia, Germania e Paesi bassi avevano scritto una lettera alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen difendendo la linea del fronte comune nella lotta all’epidemia, facendone una questione comunitaria e non una specie di sport individuale in cui ogni Paese cerca di beffare gli alleati.

Ma in fondo Ippolito non fa che seguire lo spirito dei tempi che pare molto cinico e realistico della retorica della “condivisionme”: da quando è scoppiata la pandemia di coronavirus la cosiddetta comunità internazionale si è in effetti sgretolata sotto i colpi degli interessi nazionali, prima con la battaglia delle mascherine, all’inizio introvabili e poi requisite dai governi con logica militare ( in particolare la Francia di Macron).

Poi nella sfida più importante, quella per il vaccino stesso, che da mesi si sta disputando senza esclusione di colpi con toni e risvolti che ricordano i tempi della Guerra fredda. Non più tra due blocchi ma in una convulsa partita di tutti contro tutti. Su un terreno poi del tutto inedito; quando vennero trovati vaccini contro grandi malattie planetarie come il vaiolo o la poliomielite non si ricorda minimamente un simile aggressivo sovranismo.

Stati Uniti, Russia, Cina, Paesi europei e nuove potenze emergenti: la competizione per trovare la “cura” per la più grave emergenza sanitaria moderna si gioca nei laboratori delle case farmaceutiche o degli istituti di ricerca statali, tra fiale e sperimentazioni più o meno ardite, ma anche sul campo della comunicazione, della propaganda, non meno importante per riuscire a vincere la grande contesa.

Arrivare primi non solo questione di sicurezza e salute pubblica ma un segno di prestigio, di potere nello scacchiere geopolitico globale. Chi ha sfruttato in modo esplicito questa suggestione è stato Vladimir Putin che lo scorso 11 agosto ha annunciato lo sviluppo di un vaccino efficace contro il covid- 19, talmente efficace che lo avrebbe sperimentato su una delle sue figlie senza alcun effetto collaterale.

L’Oms ha subito espresso scetticismo per i tempi di realizzazione troppo rapidi, affermando inoltre che ci vogliono prove sicure e test affidabili. Ma questo aspetto non sembra interessare più di tanto al capo del Cremlino che ha malignamente chiamato “Sputnik” il miracoloso vaccino proprio in onore al primo satellite lanciato in orbita dall’Urss nel 1954, data che sancì la supremazia sovietica sugli americani nella “guerra dello spazio” per oltre un decennio. Un “vaccino del popolo” lo Sputnik ( è stato sviluppato dallo Stato russo), che si contrappone a quelli delle multinazionali straniere. E che si impone per la prontezza con cui è stato realizzato.

La parola chiave è dunque rapidità, anche a costo di ottenere prodotti meno stabili, meno efficaci, meno sicuri. C’è naturalmente l’esigenza sanitaria di base che consiste nel proteggere il prima possibile la popolazione e raggiungere l’immunità di gregge, ma in questa ricerca del sacro Graal si intrecciano questioni di influenza e di inimmaginabili profitti per chi taglierà per primo il traguardo.

Negli Stati Uniti il programma di sviluppo più è gestito dall’Istituto di sanità nazionale ( Nih) e la società biotech Moderna. Anche la Johnson & Johnson sta lavorandoci sopra con aiuti governativi per oltre un miliardo e mezzo di dollari: sono quasi dieci i miliardi messi in campo dall’amministrazione Trump.

Tutti sembrano andare molto di fretta, tanto che il 27 luglio Moderna aveva già terminato la terza fase di sperimentazione clinica, una tempistica impensabile nello sviluppo di un vaccino solo fino a pochi anni fa.

Il colosso statunitense Pfizer dal canto suo assicura di poter produrre 100 milioni di dosi entro la fine 2020, mentre i francesi della Sanofi hanno concluso un accordo con l’Unione europea per produrne 300 milioni di dosi disponibili per i primi mesi del 2021. La stessa Sanofi che in cooperazione con i britannici della Gsk ha pre- venduto tra le sessanta e le novanta milioni di dosi al governo di Londra.

Anche Washington si è accordata con la Sanofi, ordinando preventivamente almeno cento milioni di dosi da aggiungere alle duecento milioni della Johnson & Johnson. Tecnicamente si chiama accaparramento, un approccio giustamente censurato tra la popolazione in coda ai supermercati durante le fasi più dure del lockdown, ma che gli Stati non hanno alcuna vergogna di esercitare. La Cina, inizialmente additata come epicentro della pandemia ( oggi non ne siamo più così sicuri) sta sperimentando da almeno un mese un “vaccino parziale” alle categorie della popolazione più a rischio di contrarre il virus come i militari, i lavoratori dei trasporti, dei servizi e dei mercati di selvaggina.

Il vaccino “definitivo” invece si chiamerà Ad5- nCoV, sviluppato da CanSino Biologics, in collaborazione con l'Istituto di biotecnologia dell'Accademia delle scienze mediche militari, è stato brevettato la scorsa settimana e dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi con oltre un miliardo di dosi.

Anche in questo caso però l’Oms ha un approccio molto cauto, ricordando che l’Ad5- nCoV non ha ancora passato la terza fase di sperimentazione. Le autorità cinesi assicurano che la terza fase inizierà a fine agosto in Arabia saudita Nel frattempo però le azioni della Cansino Biologics sono schizzate alle stelle guadagnando il 12% alla borsa di Hong Kong e il 6% a quella di Shangai.

Allo stato attuale l’Oms ha recensito 26 candidati- vaccini, di cui sei hanno superato la terza fase di sperimentazione, i restanti 20 sono tra la prima e la seconda fase. Altri 140 candidati aspettano la valutazione pre- clinica, in attesa di iniziare i primi test.