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Massimo Bossetti, all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, non potrà analizzare quegli abiti della ragazzina su cui è stato trovato il suo dna e che lo hanno portato alla condanna. Con una decisione incongrua rispetto a pronunciamenti precedenti, la corte di Cassazione ha respinto la richiesta dei suoi avvocati.
La difesa del muratore di Chignolo quei reperti, i leggins neri della ragazzina, gli slip, il giubbotto, non ha mai potuto esaminarli, in quanto, quando furono fatte le analisi e i primi riscontri, l’indagato si chiamava ancora “Ignoto uno”. Massimo Bossetti sarà individuato come unico responsabile di quel delitto solo tre anni e mezzo dopo, il 12 giugno del 2014, in seguito a complicate ricerche e il prelievo del dna di migliaia di persone delle valli bergamasche. È stato un processo che si è sviluppato nel tempo. Prima la sparizione di questa ragazzina di tredici anni, era il 26 novembre del 2010, dalla palestra a poche centinaia di metri da casa, a Brembate di Sopra, nella bergamasca. Poi la tragedia, con la scoperta del suo corpo abbandonato e sepolto sotto un ammasso di sterpaglie in un campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. E una diagnosi tremenda: la ragazzina era morta di freddo. Abbandonata semisvenuta, forse per aver ricevuto un colpo in testa.
A Massimo Bossetti la procura di Bergamo arriva attraverso la via tortuosa della ricerca del dna tra migliaia di giovani uomini della valle bergamasca in cui lui viveva e in cui tutto era accaduto, e con la scoperta e il disvelamento di indicibili segreti familiari e paternità extraconiugali. Un delitto che è partito dal dolore e ha seminato tanto dolore. E che ha mostrato la peggiore gogna, di cui qualche procuratore e qualche carabiniere dovrebbe mostrare pudore, di quel fermo del muratore mentre lavorava su un’impalcatura. Con un bel film appositamente girato e mandato a tutte le tv. Con le voci degli uomini delle forze dell’ordine che gridavano “prendilo, prendilo”, e poi “sta scappando, sta scappando!”. E lui, massimo Bossetti, che sembrava una bestiolina ferita, in calzoncini corti, con gli occhi abbagliati e solo stupore sulla faccia.
Poi è partita la battaglia del dna. Perché i difensori dell’indagato, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, non avevano potuto partecipare con i propri periti all’esame dei reperti, essendo Bossetti stato arrestato tre anni e mezzo dopo la morte di Yara. Ma quello che è ancora oggi veramente sorprendente è il fatto che né nella fase delle indagini né in quelle processuali, nessun giudice abbia mai disposto, nonostante le tante richieste, il riesame del dna. Va anche precisato che è stato rinvenuto solo quello nucleare maschile, mentre era assente quello mononucleare femminile. Una vera battaglia ad armi pari tra accusa e difesa è stata quindi sempre assente da questo processo. E non pare che avrà grande soddisfazione Massimo Bossetti oggi nell’avere l’autorizzazione a visionare quegli abiti su cui è stata trovata traccia dei suoi geni, se non sarà possibile l’accesso di suoi periti per esaminarli. Lui continua a proclamarsi innocente, e così la pensa la maggioranza dei cittadini italiani.
Mai è capitato che per un delitto che tanto ha impressionato l’opinione pubblica ci siano così tante persone a dubitare di quella sentenza che ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo. I motivi sono tanti. Non è chiaro il movente. Lo ha detto in aula la stessa pm delle indagini, Letizia Ruggeri. I giudici hanno invece sposato l’idea di un movente sessuale. Qualcuno ha ipotizzato che lei e il muratore quarantenne si conoscessero. Poco probabile, Yara era una bambina timida, con solo sei numeri memorizzati sul cellulare e regole inflessibili familiari che non aveva mai violato. Era dunque stata rapita, in quella sera con pioggia battente, da un uomo che era anche riuscito, dopo averla prelevata davanti alla palestra, a tener ferma una ragazzina-atleta sul furgone mentre guidava?
Tra l’altro al dibattimento era emerso un altro fatto strano, da aggiungere alle modalità dell’arresto di Bossetti. In molti ricordavano quelle immagini diffuse dai carabinieri in cui si vede un furgone bianco (che si suppone sia del muratore) fare ossessivamente il girotondo intorno alla palestra, quasi fosse in attesa della preda. In aula un colonnello del Ris chiamato come testimone ha dovuto ammettere un po’ imbarazzato di aver costruito un video-montaggio ad hoc “per esigenze della stampa”. Anche questo è stato fatto!
Il processo dell’assurdo. Perché poi nessuna violenza sessuale è stata compiuta sulla ragazzina. Ma sulla schiena e in altre parti del suo corpo sono state incise delle grandi X e Y. Però sugli abiti non c’erano tagli, come se fosse stata spogliata e poi rivestita. Difficilmente in quel campo di Chignolo, comunque, vista la pioggia di quella sera. In ogni caso, questa povera bambina tredicenne è stata abbandonata lì a morire di freddo.
E la persona che è stata condannata solo sulla base della prova del dna non ha diritto alla ripetizione di quella prova. In altri processi, come quello romano nei confronti di Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni, la prova del dna sul reggiseno della ragazza non è stata ritenuta sufficiente per la condanna, per esempio. Perché occorre anche un nesso di causalità con l’omicidio. Negli ordinamenti dove il sistema accusatorio funziona meglio che in Italia, soprattutto, è più rigorosa la necessità che la prova si formi nell’aula del dibattimento, le cose sarebbero andate diversamente. È giustamente sconcertato l’avvocato Salvagni, soprattutto per l’incongruità delle decisioni della cassazione. «Questa è una cosa di una gravità assoluta - dice -. Hanno trasformato il bianco in nero come se fosse la cosa più naturale del mondo. Questa è una sentenza folle». E la conclusione è, purtroppo, molto ragionevole. Credibile, anche. «In quei reperti c’è qualcosa che noi non possiamo accertare: c’è la risposta che Massimo è innocente». Pietra tombale dunque? A questo punto non resta che il tribunale dei diritti dell’uomo. Ma i tempi? E se Bossetti è davvero innocente?