Il processo disciplinare a Cosimo Maria Ferri - condannato dal Csm per aver accompagnato a casa di Silvio Berlusconi il giudice Amedeo Franco ( ora scomparso), componente del collegio che pochi mesi prima aveva condannato l’ex premier per reati fiscali - è da rifare. A stabilirlo le Sezioni Unite della Cassazione, che hanno contestato l’illogicità della decisione, che ha paragonato le condotte di Ferri a quelle di Franco, condannandolo a due anni di perdita di anzianità, la più grave delle sanzioni.

Secondo i magistrati di Palazzo Cavour, infatti, «la Sezione disciplinare ha fatto scaturire la conclusione cui è giunta “da una lettura unitaria e complessiva dei fatti”» che per sua stessa ammissione, se presi «singolarmente e fuori contesto potrebbero anche apparire in parte ininfluenti», «implausibili o comunque del tutto irrazionali», eludendo, in tal modo, «l’assenza di puntuali riscontri dei fatti ascritti all’incolpato, fornendo una motivazione contraddittoria e illogica». E ciò, in particolare, «per avere impropriamente connesso alla eventuale e intima condivisione di idee e affermazioni altrui rilevanza causale nella realizzazione di un illecito ascrivibile ad altra persona». Secondo l’accusa, Ferri - all’epoca toga in aspettativa e sottosegretario alla Giustizia - avrebbe reso possibile «la condotta gravemente scorretta» del giudice Franco, secondo la procura generale «già a lui anticipata», nei confronti dei componenti del collegio che ha condannato Berlusconi, definiti da Franco «un plotone di esecuzione», costituito da «quattro ultimi arrivati» che «non capivano niente».

«I magistrati sono stati accusati di essere dei congiurati, questo è il fulcro della contestazione, e non esistono dubbi sul fatto che Ferri sapesse cosa Franco volesse andare a dire a Berlusconi», aveva detto il sostituto procuratore generale della Cassazione Giovanni Di Leo. Ma non è così per i giudici della Cassazione, che hanno sottolineato le molteplici contraddizioni dei giudici disciplinari. Secondo il Csm, infatti, non esiste «prova diretta o tramite testimoni di cosa il dott. Franco disse al dott. Ferri al fine di spiegargli le ragioni della sua singolare richiesta, né cosa il dott. Ferri riferì poi al sen. Berlusconi allo scopo di prendere l’appuntamento, perché il dott. Franco è scomparso nel 2019 e il sen. Berlusconi ha sempre evitato di farsi interrogare». Tuttavia, la sentenza è giunta alla conclusione che «il dott. Ferri fosse consapevole di cosa il dott. Franco volesse riferire al sen. Berlusconi» e che «l’incontro tra il giudice e il condannato non poteva che vertere, ovviamente in termini critici, sulla decisione giudiziaria, e il dott. Ferri ne era certamente consapevole».

Ciò sulla base di quanto riferito dallo stesso Ferri circa il colloquio avuto con Franco, il quale però - dopo avergli chiesto «se avesse letto il libro del giornalista Bruno Vespa uscito a novembre del 2013, nel quale si accennava al fatto che il relatore della sentenza della Cassazione, ossia il dott. Franco, fosse stato in disaccordo sulla condanna, ragion per cui la sentenza era stata sottoscritta da tutti e cinque i componenti il Collegio e non solo da Presidente e relatore, come è la regola» - si limitò a dire genericamente: «Voglio andare a chiarire quello che c’è scritto ( ndr nel libro)», palesando la sua «sofferenza interiore» o disagio al riguardo, senza ulteriori precisazioni. Non c’è prova, dunque, che Ferri fosse consapevole dell’intenzione di Franco di denigrare gli altri magistrati del collegio. Per i giudici della Cassazione, infatti, «un conto è che il dott. Ferri fosse consapevole dell’oggetto del colloquio ( discutere anche criticamente di una sentenza), un altro conto è che egli potesse prefigurarsi i contenuti e il tenore delle dichiarazioni del dott. Franco e del sen. Berlusconi, consapevolezza che non risulta argomentata nella sentenza».

La registrazione denominata “prima conversazione” che testimoniava l’incontro tra Franco e Berlusconi e durante la quale Ferri sarebbe rimasto in silenzio, limitandosi a poche e non precisate parole - sarebbe stata inoltre manipolata: «Il file è stato generato in un momento successivo rispetto al file “seconda conversazione”, e ciò perché esso è stato manipolato nei termini segnalati dal consulente tecnico, ossia è stato tagliato nella parte iniziale della registrazione. Tale conclusione emerge del resto anche dalla relativa trascrizione». Un documento «non genuino», insomma, «e, tuttavia, valutato come prova “regina” della responsabilità dell’incolpato» senza compiere il «doveroso» vaglio di attendibilità.

I giudici disciplinari avevano inoltre attribuito al silenzio di Ferri nel corso della seconda conversazione il significato di «silente condivisione» delle dichiarazioni offensive di Franco ai colleghi. «Nel nostro ordinamento - scrivono però i giudici - è acquisito il principio generale» secondo cui «il comportamento di chi tace, di regola, non può essere inteso né come assenso e condivisione né come dissenso, pertanto, non dà luogo ad alcuna conseguenza giuridica, salvo che non vi sia un obbligo di parlare (o di esplicitare il dissenso) imposto dalla legge o da consuetudini che rendano il silenzio significativo in particolari circostanze e situazioni ( quando, ad esempio, la persona rivesta una posizione di garanzia), ipotesi non configurabili nella specie». E Ferri, secondo la difesa, non avrebbe nemmeno sentito le affermazioni di Franco, essendo stato assente per circa 12 minuti, come ricostruito dalla consulenza tecnica.

Il Csm ha però liquidato la questione, preferendo credere all’astratta possibilità «che ad allontanarsi dalla stanza fosse stata una quarta persona mai identificata, nonostante si trattasse di un colloquio privato nel quale i conversanti erano soltanto tre» e «senza argomentare l’eventuale dissenso dalla conclusione» raggiunta dal consulente Fabio Milana circa l’assenza di Ferri dalla stanza. Assenza che secondo il Csm, erroneamente, sarebbe stato Ferri a dover dimostrare e non l’accusa. Insomma, un vero e proprio pasticcio.