Non sono certo nuove le posizioni di netta contrarietà dell’Anm sulla separazione delle carriere, ma mi hanno sorpreso le parole del presidente Santalucia, che ha parlato di pericolo per la democrazia, come se l’Italia fosse l’unico Paese al mondo in cui occorrerebbe tenere unite le carriere tra giudici e pubblici ministeri per garantire l’assetto democratico.

Io, al contrario, credo che la separazione delle carriere, se realizzata secondo certi criteri e se inserita in un più ampio contesto di riforma e modernizzazione della magistratura, possa non solo essere accettata senza preoccupazione alcuna, ma addirittura migliorare il sistema giustizia, a beneficio sia dei cittadini sia degli stessi magistrati. Purtroppo, però, l’intervento dell’Anm nel pubblico dibattito si connota per posizioni del tipo “dopo la separazione, il diluvio”, che chiudono a ogni possibile soluzione alternativa al mantenimento dello status quo.

Comprendo le critiche mosse dalla magistratura e ritengo fondati i pericoli sul versante del ridimensionamento delle garanzie costituzionali attualmente in vigore. Ma il punto è che non si può sostenere che ogni tipo di proposta di separazione porterà inevitabilmente alla sottoposizione del pm all’Esecutivo, alla discrezionalità dell’azione penale, alla scomparsa della comune cultura della giurisdizione, alla trasformazione del pm in un superpoliziotto e chi più ne ha, più ne metta.

In altre parole, io mi oppongo ai dogmatismi e sostengo che non c’è alcun automatismo tra separazione delle carriere dei magistrati e assoggettamento al potere politico, poiché tutto dipende da come la riforma verrà realizzata. E ritengo che sia ben possibile prevedere una separazione delle carriere coerente con l’assetto costituzionale.

Il discorso è complesso e mi limito a indicare alcuni requisiti irrinunciabili che il pubblico ministero dovrebbe continuare ad avere, come l’indipendenza dall’Esecutivo, l’obbligatorietà dell’azione penale, la terzietà e imparzialità rispetto alla polizia giudiziaria, la cultura della giurisdizione, l’inamovibilità, il governo autonomo (magari istituendo due Csm. l’uno per i giudici e l’altro per i pm), la distinzione tra magistrati solo per diversità di funzioni, ossia lasciare integralmente intatte tutte le garanzie attualmente in vigore che sono – e devono restare – baluardo irrinunciabile per la libertà e i diritti del cittadino.

Se non fossero rispettate tali condizioni, allora meglio rinunciare alla separazione e tenersi il sistema attuale, perché diventerebbe inevitabile la sottoposizione del pm all’influenza del potere politico, con tutti i rischi che ne deriverebbero per la tenuta dell’assetto democratico e per la stessa pace sociale.

Non solo, ma da una buona riforma della separazione potrebbe derivare un miglioramento in efficienza e specializzazione di giudici e pubblici ministeri, una maggiore coerenza con la riforma del 1988, una valenza simbolica in favore dell’immagine di terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero.

Ecco perché ritengo che un’interlocuzione più laica e serena da parte dell’Anm dovrebbe portare a considerare la possibilità di avere la separazione delle carriere, dando anzi un contributo di tipo tecnico-giuridico in ordine alla salvaguardia di quelle garanzie che servono a preservare l’equilibrio tra i poteri dello Stato, l’indipendenza della magistratura e, in definitiva, la libertà dei cittadini.