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L'avvocato Giancarlo Pittelli
Non dovrebbe essere lì, non dovrebbe indossare l’abito dell’imputato ma la toga del grande avvocato, quale è sempre stato. Invece è chiamato a dare spiegazioni: “Non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso”. Questa volta è lui in persona, a dirlo, l’avvocato Giancarlo Pittelli, nell’aula bunker di Lametia e davanti a tre giovani donne giudici che dovranno decidere se l’imputato eccellente del maxiprocesso “Rinascita Scott” sia stato responsabile, a margine della sua attività di famoso penalista, di “concorso esterno in associazione mafiosa”.
In aula non c’è il principale accusatore di Pittelli, il procuratore Nicola Gratteri. Un gesto di glaciale noncuranza. Anche perché il capo della Dda di Catanzaro aveva voluto invece esserci la sera in cui lesse tutte le richieste di condanna, precisando che solo a pochi, in particolare i “pentiti”, lui riteneva dovessero essere concesse le attenuanti generiche. A tutti gli altri no, e stiamo parlando di 343 imputati, compresi quelli incensurati. Il tono del procuratore quella sera era da 25 aprile 1945. Aveva preso la parola con tono solenne: “Sono le 18.30 del 7 giugno 2023”, aveva declamato, sottolineando con enfasi la gravità del momento, quasi fosse quello della sentenza e non invece “solo” delle richieste di una parte processuale. Diciassette anni di carcere per l’avvocato ed ex parlamentare Pittelli Giancarlo, neanche fosse molto più di un rapinatore, addirittura un omicida o uno stupratore seriale.
Ma per il procuratore Gratteri pare arrivato il momento del trionfo, dopo quella notte del blitz di quattro anni fa, e poi le conferenze stampa, l’evocazione continua del temine “maxiprocesso”, con l’aula bunker di Lametia fatta costruire appositamente. E il sussurro costante con il riferimento a Giovanni Falcone e a quel processo che trent’anni fa segnò una svolta nel contrasto alla Cosa Nostra dei sanguinari corleonesi.
A questo aspira il procuratore Gratteri, a essere ricordato come “il Falcone di Calabria”. Chissà se sarà così. Intanto nei rami collaterali di questo processo, molti di quelli che allora furono arrestati si sono persi cammin facendo, tante sono state le archiviazioni, e le assoluzioni, compresi i 7 su 20 del rito abbreviato. E poi non è detto che la nuova generazione cui appartengono le tre giudici (meno di dieci anni di anzianità in tre), la presidente Brigida Cavasino e poi Claudia Caputo e Germana Radice, sia portatrice della stessa cultura giuridica dei padri. Magari saranno più attente anche alle ragioni della difesa. Nicola Gratteri pare quasi far loro un appello, quando dice che “in pochi avevano creduto in questo processo, per la mole degli imputati, per il collegio dalla giovane età, c’è stata una sorta di tifo perché questo processo non si celebrasse, ma si è svolto con serenità e se ci sono stati momenti di tensione è normale, è il sale del processo”.
Serenità, quando ti vogliono condannare a diciannove anni di carcere? “Io non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso”, parole che si appoggiano sul silenzio delle tre giudici, in un’atmosfera surreale perché manca il grande protagonista di un corpo a corpo che, dalla notte del 19 dicembre del 2019, ha visto contrapposto questo procuratore, con uno stile un po’ da pm all’americana, non solo agli uomini delle cosche di ’ndrangheta, ma anche a quella che l’accusa ha definito la “zona grigia” di amministratori pubblici, professionisti e massoni, di cui Giancarlo Pittelli sarebbe stato una sorta di capo. La cerniera tra questa società civile e i clan.
Eppure, il fatto che l’avvocato Pittelli non abbia in alcun modo favorito le cosche non è solo lui a dirlo, quando afferma di non essere mai stato un “mafioso”. Ci sono fior di sentenze, quelle che, dopo tre anni di tormenti, di carcere durissimo, di peregrinazioni e poi di domiciliari, gli hanno ridato almeno quel soffio di vita che si chiama libertà. Due pronunce della Cassazione e poi un’ordinanza del Tribunale di Catanzaro certificano il fatto che “nessun indizio” collega Giancarlo Pittelli alla mafia. La Suprema corte per ben due volte aveva dovuto chiarire quali fossero i presupposti per la configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa e come fosse indispensabile il nesso di causalità tra un determinato comportamento e la volontà di favorire la criminalità mafiosa. Al nesso si deve inoltre accompagnare un comportamento che si concretizzi in aiuto “concreto, specifico, consapevole e volontario”. Lo ha detto e ribadito l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, che ha svolto un intervento di quasi un’ora e mezzo. Ha martellato a lungo sul vero punto debole dell’accusa, lo stesso rilevato dalle sentenze di diverse sezioni della Cassazione e dall’ordinanza del Tribunale di Catanzaro: non esiste un solo comportamento dell’avvocato Pittelli che possa essere inteso come finalizzato a favorire la ’ndrangheta. Il nesso non c’è. La Procura confonde un banale spunto di indagine con la prova provata, la congettura con la logica. La voce del legale si alza appena, senza retorica, ma con la forza della legge, e anche della giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite.
Nel mezzo delle tante nebulosità dell’impianto d’accusa nei confronti del legale calabrese, dall’adesione alla massoneria (mai negata, ma quella legale e trasparente) alla fama di “aggiustatore” di processi (senza che mai fosse stato indicato quale processo e come sarebbe stato “aggiustato”), emerge un unico fatto. Ed è falso. L’avvocato Pittelli avrebbe rivelato al suo assistito Luigi Mancuso il contenuto di verbali segreti del “pentito” Mantella. Perché possiamo tranquillamente affermare che si tratta di un falso? Perché la difesa ha potuto dimostrare, e lo certificano le conseguenti pronunce della Cassazione e l’ordinanza del Tribunale civile di Catanzaro, che quelle notizie erano state già pubblicate su un quotidiano e un sito social.
Giancarlo Pittelli, da bravo imputato ma anche da avvocato, nella sua deposizione spontanea ha smontato punto per punto anche tutto il contorno costruito attorno al nucleo centrale. A partire da un appunto da lui redatto in diverse fasi, che sembra quasi la preparazione di una linea difensiva, dopo che un suo amico giornalista lo aveva preallertato con molto anticipo del fatto che la Procura di Catanzaro stava indagando su di lui.
Ma è la logica inoppugnabile dell’arringa dell’avvocato Caiazza a dare il colpo decisivo, e anche a disvelare come la fragilità delle “prove” portate con pervicacia insensata fino all’aula, abbia condotto la politica di Gratteri e dei suoi collaboratori della Dda su un binario morto. Non è un caso che la pubblica accusa abbia dedicato due intere udienze solo per cercare di impallinare i giudici che avevano dimostrato l’estraneità di Giancarlo Pittelli rispetto alle cosche. Perché temono che le tre giovani colleghe possano arrivare alle stesse conclusioni. Assolvendo Gian Carlo Pittelli per l’inesistenza dei fatti, cioè la formula più ampia, come ha chiesto l’avvocato Caiazza.