Premessa di ogni discussione seria: non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità e dalla specialità del tema. Non c’entra nulla la libera espressione delle opinioni. È certamente questo il caso delle intercettazioni telefoniche, tema complesso e delicatissimo perfino per gli addetti ai lavori, sul quale occorrerebbe fare innanzitutto una buona informazione, prima di dar vita a interminabili ed infuocati rodei polemici in tv, sui media e - non ne parliamo - sui social. Proviamo a mettere ordine.

Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono “inviolabili”. Per limitare quel diritto fondamentale, occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria che sia rispettoso delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste garanzie normative, proprio perché derogatorie rispetto ad un così forte principio costituzionale (“inviolabilità”), non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo di per sé ovvio interesse confligge con un diritto di libertà della persona di primario rango costituzionale, quell’interesse (alla sicurezza ed al perseguimento dei reati) dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza come interesse sociale primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.

Ecco allora che le intercettazioni sono consentite solo per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale, ma soprattutto solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto, o la ipotetica probabilità) che quei reati siano commessi; hanno una durata limitata nel tempo; le proroghe devono essere rigorosamente motivate; possono essere utilizzate solo per i reati e nello stesso procedimento rispetto al quale i giudice le ha autorizzate; sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Se poi le intercettazioni sono “ambientali”, esse non possono essere disposte in luoghi di privata dimora, salvo che non vi sia “fondato motivo” di ritenere che proprio in quei luoghi “si stia svolgendo l’attività criminosa”, ad eccezione di alcuni gravissimi reati (di criminalità mafiosa, principalmente). Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare stesso in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità, connotati strutturalmente da una inespugnabile organizzazione omertosa.

Queste regole fondamentali sono effettivamente rispettate nella quotidianità giudiziaria? Nossignore, no, e per moltissime ragioni. Scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del pm, soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (a quando i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei pm? Ad oggi non a caso è un segreto inviolabile); costante deriva verso un indebito uso “a strascico” alla ricerca dei reati, oltre l’ambito autorizzativo del giudice; uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. A ciò si è aggiunta la furia giustizialista del recente legislatore populista, che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati intercettabili e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi forti, rigorosi, mirati, restituendo quello strumento agli stringenti confini della sua eccezionalità. Quali? Ritornare almeno alla normativa pre-governo populista; limitare rigorosamente e senza eccezioni l’utilizzabilità ai soli reati per i quali il giudice ha concesso l’autorizzazione; sanzionare efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di idee che, diversamente da quanto contrabbandato dai cultori della giustizia securitaria, non appartengono a fiancheggiatori della criminalità ed alla casta dei “colletti bianchi”, ma ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura.

Se i polemisti di accatto che avvelenano i pozzi di questo cruciale dibattito democratico leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione anche recente, o perfino qualche recentissimo intervento - per fare un esempio - di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti - cosa che già non fanno - dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.