«Giustizia ritardata è giustizia negata», così già recitava il filosofo Montesquieu nel 1700. Mai frase fu più vera di questa e si sa che il ritardo della giustizia non può ripagare, in alcun modo nessuna sofferenza e non può restituire alla persona un bene prezioso e supremo come la libertà.

Eppure, in Italia il diritto a un processo di durata ragionevole continua a essere spesso una mera aspirazione. Il rimedio previsto ormai più di venti anni fa con la legge n. 89/2001, la cosiddetta legge Pinto, non ha saputo incidere significativamente sulle lentezze strutturali del nostro sistema giudiziario, limitandosi ad una riparazione ex post.

È alle ripetute violazioni dell’art. 6 Cedu che il Legislatore domestico si è visto obbligato a intervenire sul tema: invece di attendere i ricorsi, si istituisce un procedimento interno volto a ottenere un risarcimento. L’idea era quella di “internalizzare” il rimedio, evitando ricorsi massicci in sede europea. Nei fatti, però, l’indennizzo monetario si è trasformato in una sorta di surrogato della giustizia negata: si compensa il danno subito dal cittadino, senza però modificare le condizioni che hanno prodotto il ritardo.

Insomma, il malato che contagia il medico.

Negli anni, l’Italia ha progressivamente ristretto l’accesso e ridotto gli importi riconoscibili. I parametri originari, più generosi, sono stati abbassati per contenere la spesa pubblica. Contestualmente, è stato imposto al ricorrente di dimostrare di aver attivato strumenti “acceleratori” del processo, trasformando la richiesta Pinto in un vero e proprio percorso a ostacoli.

In altre parole, la vittima del ritardo deve provare di aver fatto il possibile per evitarlo: un ribaltamento che ha scaricato sul cittadino l’inerzia dell’apparato giudiziario.

Secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia, il sistema è arrivato ormai a un punto critico, quasi al collasso: a fine 2022, risultavano pendenti circa 80 mila decreti di pagamento emessi dalle Corti d’Appello, per un debito complessivo nell’ordine dei 400 milioni di euro, comprensivo non solo della sorte capitale, ma anche di interessi e spese di giudizio derivanti dalle azioni esecutive intentate dai beneficiari.

Una situazione che, di fatto, ha moltiplicato il paradosso: cittadini che hanno ottenuto un risarcimento per la giustizia lenta hanno dovuto avviare nuovi contenziosi per vederselo riconosciuto.

Per tentare di porre rimedio a quest’impasse, a inizio dell’anno corrente è stato avviato il progetto PagaPinto, con l’obiettivo di smaltire l’atteso entro il 31 dicembre 2026.

La novità principale consiste nel passaggio da una gestione cartacea a una piattaforma digitale. Si tratta di un passaggio non di certo banale, perché alleggerisce il carico delle Corti d’Appello, che d’ora in avanti potranno occuparsi dei decreti emessi dal 2023 in avanti.

Ora, volendo analizzare con occhio critico di chi vive i tempi giudiziari quotidianamente, occorre chiedersi se sul piano pratico PintoPaga rappresenti concretamente un passo in avanti.

L’obiettivo dichiarato è chiaro: ridurre drasticamente i tempi di liquidazione degli indennizzi e chiudere una partita che rischiava di diventare un debito strutturale per lo Stato. Tuttavia, non va dimenticato che si tratta pur sempre di un rimedio ex post: si paga un danno già subito, non si previene la sua insorgenza.

La Giustizia, nel frattempo, continua a produrre ritardi e il rischio è che tra qualche anno si torni a parlare nuovamente di arretrato.

Il nodo irrisorio resta il medesimo: ridurre i tempi dei processi alla fonte. Perché il Parlamento non interviene sui filtri del processo? Sull’udienza preliminare, ad esempio, come già annotato da chi scrive su queste pagine quando fu introdotta la cd. predibattimentale a marchio Cartabia. E le carenze di organico? Perché non investire lì.

Non sarà dunque sufficiente limitarsi a compensare il danno o a tagliare i procedimenti troppo lunghi: digitalizzazione, maggiore organico e semplificazione delle procedure sono i veri cardini per una giustizia efficace.

La legge Pinto e i suoi correttivi, per quanto utili a tamponare le urgenze, non bastano a cambiare la percezione di un sistema che, ancora oggi, appare più lento delle sue stesse riforme.

*Avvocato, direttore Ispeg