LINEA DELLA FERMEZZA E CENSURE

Il 12 dicembre del 1980, le Brigate rosse rapirono a Roma il giudice Giovanni D’Urso. Cominciò così un caso che ha inciso sulla storia politica italiana. Il magistrato era stato distaccato al ministero della Giustizia dove dirigeva l’ufficio incaricato del trattamento dei detenuti. I brigatisti lo bollarono come aguzzino e boia.

IL RAPIMENTO BR

Il 12 dicembre del 1980, le Brigate rosse rapirono a Roma il giudice Giovanni D’Urso. Cominciò così un caso che ha inciso sulla storia politica italiana. Il magistrato era stato distaccato al ministero della Giustizia dove dirigeva l’ufficio incaricato del trattamento dei detenuti. I brigatisti lo bollarono come aguzzino e boia, responsabile dell‘ «annientamento dei proletari prigionieri”. Accanto alla famiglia che da subito cercò di fare di tutto per salvargli la vita, Marco Pannella, il Partito radicale e Radio radicale si impegnarono per opporsi al “partito della fermezza” che, come nella vicenda del sequestro di Aldo Moro, voleva impedire il confronto politico, silenziare il parlamento e mettere il bavaglio alla stampa per determinare una svolta autoritaria.

Nel “partito della fermezza” agirono interessi e obiettivi diversi: il Partito comunista e i propugnatori della “questione morale”, il quotidiano La Repubblica e i cosiddetti borghesi illuminati. E la P2 di Licio Gelli che controllava il gruppo editoriale Rizzoli e il Corriere della sera.

Erano anni segnati dalla violenza politica e dalle stragi. Un nuovo cadavere eccellente sarebbe servito per imporre leggi speciali che da più parti venivano invocavate e dare vita ad un governo di emergenza nazionale al di fuori delle procedure parlamentari. Sulla vicenda si aprì anche uno scontro interno al centro- sinistra in un anno segnato dall'instabilità e da due crisi di governo.

Le Brigate rosse chiesero la pubblicazione dei comunicati dei comitati dei detenuti delle carceri di massima sicurezza di Palmi e Trani ( quest'ultimo teatro di una rivolta repressa duramente dai reparti speciali dei Carabinieri con un'operazione che provocò la rappresaglia delle Br che assassinarono il generale Galvaligi, stretto collaboratore di Dalla Chiesa). I maggiori quotidiani e la Rai invece si rifiutarono dopo che per anni avevano pubblicato i documenti brigatisti. L'informazione divenne allora un campo di battaglia. Radio Radicale, insieme a poche altre testate, svolse un ruolo fondamentale capendo che la partita andava giocata tra la gente e che la vicenda poteva e doveva concludersi in modo diverso da quella di Moro.

Il piano, infatti, fu sventato. Dopo 34 giorni di prigionia la mattina del 15 gennaio 1981 Giovanni D’Urso venne fatto ritrovare legato e imbavagliato dentro una Fiat 127 al Portico d'Ottavia, nel ghetto ebraico Roma, poco lontano dal ministero della Giustizia e dalla sede del Partito comunista. Non distante dal luogo dove, meno di tre anni prima, Aldo Moro era stato invece lasciato senza vita. Per tutto il tempo era stato tenuto prigioniero in un appartamento nel quartiere di Tor Sapienza, dentro una tenda da campeggio, bendato e legato a una brandina con una catena.

Le Brigate rosse di Mario Moretti e Giovanni Senzani cercarono di accreditare la “campagna D'Urso” come una vittoria, ma in realtà, nonostante quello che diversi loro appartenenti hanno sostenuto negli anni successivi, furono sconfitte politicamente e idealmente. Lo dimostrò la profonda impressione suscitata dalla figlia Lorena che in tv, in una Tribuna politica del Partito radicale, lesse il comunicato brigatista che definiva il padre “boia”. Lo dimostrarono le persone che il 15 gennaio applaudirono il magistrato e la sua famiglia al passaggio sulle volanti della polizia, che si affacciarono alle finestre per salutarlo al suo ritorno a casa, che durante il sequestro inviarono lettere, telegrammi, messaggi di solidarietà. In tutto questo D'Urso non volle essere oggetto della celebrazione mediatica della sua liberazione. Preferì incontrare i giornalisti presso la sede della Federazione della stampa, tutti insieme, quattro giorni dopo il suo rilascio. Un incontro da cui emerse la sua umanità e il suo riserbo.

Il “partito della fermezza”, al contrario di quanto accadde con Aldo Moro, fu battuto, ma con un'incredibile sfacciataggine i suoi rappresentanti se ne attribuirono il merito sostenendo che era stata la loro intransigenza a costringere i brigatisti a cedere. Un'interpretazione senza fondamento che tuttavia è stata ripetuta negli anni seguenti fino ad oggi. Con il giudice D'Urso che seppe tenere testa ai suoi sequestratori, la sua famiglia che non rimase in silenzio davanti a nulla e a nessuno ma cercò ogni strada possibile per salvargli la vita, Marco Pannella e il Partito Radicale che insieme a Radio Radicale fecero“il dovuto e il giusto”, ci furono Bettino Craxi e il Partito socialista, forze politiche della nuova sinistra, intellettuali come Leonardo Sciascia, direttori di quotidiani e giornalisti che seppero opporsi al blackout dell'informazione e in qualche caso pagarono la loro indipendenza.

Il 12 dicembre non è solo l'anniversario della strage di piazza Fontana. Il sequestro del giudice D'Urso da parte delle Brigate rosse ha inciso sulla storia italiana. E' stato un caso politico. Una battaglia durissima combattuta nelle aule parlamentari, nelle segreterie dei partiti, sui giornali, in televisione, tra la gente. Da una parte ci fu chi cercò di sfruttare la pelle del magistrato e non ha mai chiesto scusa, dall'altra chi fece di tutto per salvarla e ci riuscì. Come si legge nel libro di Radio radicale pubblicato all'indomani della conclusione della vicenda «il sequestro e la sopravvivenza del giudice hanno dato valore ultimativo, nel nostro Paese, ad uno scontro di civiltà e di culture, e dunque a uno scontro politico destinato a durare». Parole che suonano ancora attuali. Quarant'anni dopo sono cambiate le situazioni, le persone, i metodi, ma le logiche sono rimaste più o meno le stesse.