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IL COMMENTO
La relazione annuale del presidente della Corte costituzionale, in cui viene presentato il bilancio dell’attività della Consulta, è un momento di straordinaria importanza.
A LA RELAZIONE 2021
La relazione annuale del presidente della Corte costituzionale, nella quale viene presentato il bilancio dell’attività della Consulta nell’anno precedente, è un momento di straordinaria importanza nella vita dell’ordinamento costituzionale.
Non solo per il ruolo che questo organo riveste nell’architettura del nostro sistema politico- istituzionale, ma anche perché, offrendo un quadro di insieme della giurisprudenza, consente di mettere in evidenza tendenze e problematiche che compongono, in un mosaico complessivo, l’insieme delle singole decisioni assunte durante l’anno. La questione non interessa solo gli addetti ai lavori, ma si proietta sia sul rapporto tra i cittadini e le istituzioni sia sui rapporti tra Corte costituzionale e altre istituzioni, giurisdizionali ( le Corti sovranazionali, ad esempio) e politico- amministrative. La vastità delle questioni non può essere riassunta in una breve riflessione. Anche perché la relazione del Presidente è essa stessa già una sintesi ragionata di un’analisi ben più ampia racchiusa nello studio redatto dall’Ufficio studi della Corte costituzionale.
Alcune considerazioni, a mo’ di schizzo, sembrano comunque opportune.
La prima riguarda i dati quantitativi. L’attività della Corte subisce da alcuni anni una decrescita, in termini di pronunzie, confermata anche quest’anno, nel quale, come ha ricordato il presidente Amato, ha sicuramente inciso l’effetto della pandemia, che negli anni scorsi ha rallentato anche l’attività dei giudici comuni, i quali rimangono i principali “fornitori” di questioni costituzionali alla Corte.
Nell’ambito delle pronunzie, un dato da sottolineare è la relativa esiguità delle questioni che riguardano i conflitti tra i poteri dello Stato ( solo 12 decisioni su 263), questioni cioè che definiscono l’equilibrio tra i vari poteri pubblici. Si potrebbe dire che questo sia un buon segno e che, tutto sommato, tra le nostre istituzioni regni armonia. In realtà forse non sempre è esattamente così. Un fronte molto interessante, da questo punto di vista, riguarda i conflitti interni agli organi parlamentari. Solo da pochissimi anni la Corte ha riconosciuto, almeno in astratto, l’ammissibilità di un suo sindacato sulla vita interna alle Camere, sulle quali, in precedenza, regnava il dogma dell’insindacabilità dei cosiddetti interna corporis, retaggio di un’idea di impenetrabilità dei rapporti e dei procedimenti che si svolgono al cuore della vita politica.
Una deferenza venuta progressivamente meno, sulle orme di altre esperienze costituzionali ben più consolidate, come quella tedesca, anche per il clamore che alcune vicende hanno determinato e la consapevolezza che, in un sistema politico oggi meno consociativo e più competitivo, il rispetto delle procedure interne alle Camere ha implicazioni importanti per la tutela delle minoranze politiche e persino dei singoli parlamentari. Tra l’altro proprio nel 2021 la Corte con la sentenza n. 207 ha pronunziato parole definitive sul principio del libero mandato parlamentare, affermando come da esso discenda che gli eventuali accordi, istruzioni e vincoli tra parlamentari e partiti o gruppi di appartenenza “non sono assistiti da alcuna garanzia giuridica, poiché la loro osservanza è rimessa alla coscienza del singolo parlamentare”.
Il parlamentare, insomma, era e resta libero nell’esercizio della rappresentanza.
Tornando ai conflitti interni alle Camere si deve però constatare che, a fronte della rivoluzionaria affermazione di principio contenuta nell’ordinanza 17/ 2019, la quale ha ammesso la possibilità del singolo parlamentare di ricorrere alla Corte per la tutela delle proprie prerogative costituzionali, ad oggi, nessuno dei numerosi conflitti sollevati ( più di una ventina, se non andiamo errati) è stato in concreto dichiarato ammissibile dalla Corte stessa. Ciò perché non è stata mai riconosciuta dal giudice costituzionale la sussistenza di una “violazione manifesta della prerogativa” del parlamentare, condizione necessaria per avviare il sindacato.
Siamo dunque nella fase del “già e non ancora”. La clausola della “violazione manifesta” lascia all’evidenza un certo margine di ponderazione alla Corte. Solo quando tale “violazione manifesta” verrà in concreto rinvenuta si potrà allora veramente capire quali siano i confini e l’impatto della rivoluzione “promessa”.
Al di là del tema dei conflitti tra poteri, vi è in realtà un altro indicatore della buona o cattiva salute dei rapporti tra le istituzioni, e in particolare del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento. Nel modello immaginato dal costituente, infatti, tale rapporto avrebbe dovuto essere particolarmente collaborativo, in quanto sarebbe dovuto servire a stemperare la drammaticità della dialettica tra giudice delle leggi e organo rappresentativo. Non bisogna, infatti, dimenticare che il giudizio di legittimità costituzionale è, sul piano sostanziale, un giudizio sull’operato dell’organo di massima rappresentanza della sovranità popolare. Ogni sentenza che annulla una legge, in qualche modo, mette a nudo questa tensione tra istanza democratica e garanzia della Costituzione. Ebbene, su questo punto, il bilancio negli anni non è stato particolarmente felice. Il Parlamento ha spesso fatto orecchie da mercante rispetto ai moniti e alle decisioni della Corte. Mettendo anche in difficoltà lo stesso giudice delle leggi che spesso si è trovato nella condizione di accertare ipotesi di illegittimità costituzionale senza poterle però dichiarare perché l’effetto sul sistema normativo sarebbe stato dirompente o avrebbe determinato lacune ben più gravi della conservazione delle norme illegittime.
È così che nel corso degli anni la giurisprudenza della Corte si è arricchita di strumenti volti a propiziare interventi del Parlamento per evitare gli esiti peggiori. Purtroppo il Parlamento spesso non è stato pronto a reagire. Basti ricordare gli esempi del cosiddetto caso Cappato o dell’ergastolo ostativo, per citare i più eclatanti. Ma la casistica è molto più ricca.
Nella relazione del presidente Amato c’è un’ampia traccia di questa situazione. Innanzitutto nel mostrare tutto lo strumentario di tecniche utilizzate dalla Corte per sollecitare il Parlamento. Amato cita ben cinque diverse modalità, con differente gradiente di intensità, con cui la Corte ha modulato i propri moniti alle Camere. Nello stesso tempo, a conclusione della sua relazione, il Presidente intravede alcuni segnali confortanti indicando alcuni esempi che mostrerebbero una maggiore reattività delle Camere.
Il galateo istituzionale e lo spirito di leale collaborazione hanno consentito al Presidente di valorizzare questi spunti. La realtà è che, in molti casi, si tratta di iniziative parlamentari ancora in corso delle quali non è dato sapere né quale esito avranno in termini di adeguamento alle indicazioni della Corte né se, conoscendo le straordinarie insidie del nostro procedimento legislativo, avranno mai esito alcuno.