«Ero un bersaglio facile e la procura voleva un trofeo, cercava il caso clamoroso, sono stati capaci di utilizzare mia figlia, una bambina di 22 mesi, per esercitare pressione su di me: mi dicevano che se avessi confessato sarei tornata libera, altrimenti mi avrebbero condannato a 15 anni di prigione e non l'avrei mai più rivista. Ci avevano sottovalutati».

Nello sguardo di Eva Kaili non c'è l'ombra bruna del rancore o il lampo della rivalsa, ma la luce calma di chi esce più forte e consapevole da un'ingiustizia subita. Per la prima volta in Italia, ospite del Dubbio al Salone del libro di Torino insieme al compagno ed ex assistente parlamentare Francesco Giorgi e al senatore di Italia viva Ivan Scalfarotto, l'allora vicepresidente del Parlamento europeo racconta la sua odissea giudiziaria e umana, la spietatezza con cui il giudice istruttore Michel Claise ha condotto l'inchiesta fino alle dimissioni per conflitto di interessi. È rimasta in prigione per quasi sei mesi, i primi giorni in condizioni degradanti tanto che sul suo caso era intervenuta persino Amnesty International che ne aveva chiesto l'immediata scarcerazione, come fa spesso con i regimi autoritari. Purtroppo eravamo nel cuore pulsante dell’Europa democratica.

Diritto di difesa fatto a pezzi, confessioni prodotte con il ricatto, poliziotti in borghese che si aggiravano nei corridoi del Parlamento di Strasburgo, fughe di notizie, nessuna prova mai emersa dai fascicoli in due anni e mezzo di indagini, tutto che rimane nel campo delle ipotesi, delle supposizioni, del sospetto strumentale e malevolo.

Se mai esistesse un manuale di come non si deve condurre un'inchiesta giudiziaria il Qatargate dovrebbe apparire al primo capitolo, un caso di scuola da far studiare alle generazioni future.

Eppure, nel dicembre 2022 i giornali di mezza Europa l'avevano spacciato come l'affaire “fine di mondo” il caso che avrebbe sconquassato per sempre la politica europea, destinato a espandersi a macchia d'olio ea travolgere un'intera classe dirigente. Corruzione, riciclaggio, associazione a delinquere, lobbismo tossico per conto di oscuri interessi stranieri, e poi quei sacchi pieni di denaro sequestrati all'ex eurodeputato Antonio Panzeri che tanto hanno stuzzicato le fantasie giustizialiste dei media. Sembrava un format televisivo e con uguale superficialità è stato trattato dagli organi di informazione, anche loro in cerca di trofei e di carne umana da dare in pasto all'opinione pubblica. Un processo mediatico in purezza .

La tesi della procura era suggestiva: decine di parlamentari europei e lobbisti che fanno la spola tra Bruxelles e Strasburgo avrebbero ricevuto grandi quantità di denaro e regali per promuovere gli interessi del Qatar (e del Marocco) nelle istituzioni dell'Ue . Panzeri, anche lui brutalizzato dal procuratore Claise che ha fatto arrestare la moglie e la figlia per farlo crollare non ha avuto la forza di resistere al ricatto e ha “confessato” in cambio della libertà. Cosa? Nulla che avesse il minimo riscontro con la realtà. Anche perché in nessuna occasione gli indagati hanno votato delibere, risoluzioni o quant'altro a favore degli interessi del Qatar o del Marocco, quindi nessuna prova, nessun reato.

Di fronte alla comprensibile frustrazione di veder crollare castello di carte dell'accusa, la procura ha abusato senza freni della custodia cautelare , ha fatto titillare le manette alle orecchie delle persone arrestate per estorcere le confessioni ed “estrarre” il reato, regola aurea del procuratore Claise, chiamato non a caso «lo sceriffo» dagli stessi media belgi .

Oltre alla violazione dei principi dello Stato di diritto e del diritto alla difesa (i primi interrogatori di Kaili sono avvenuti In assenza di un avvocato), il Qatargate ha colpito anche «l'integrità del Parlamento europeo», ricorda Kaili, un aspetto politico a cui tiene molto il senatore Scalfarotto : «Questa vicenda è servita tantissimo ai nemici dell'Ue, ha screditato l'intero Parlamento europeo con i suoi principali esponenti che non hanno fatto nulla per difenderlo, hanno revocato l'immunità agli indagati, chiesto scusa e promesso. di rimediare, accettando supini la narrazione dei media che poi era quella della procura concepita come verità acclarata».

Francesco Giorgi , all'epoca dei fatti assistente parlamentare di Panzeri, anche lui finito in carcere per alcuni mesi e anche lui capace di resistere alle pressioni, traccia un bilancio impietoso di un caso che formalmente non è ancora chiuso: «A due anni e mezzo di distanza, cosa rimane oggi del Qatargate? Solo macerie e persone che vivono in un limbo giudiziario al punto che l'inchiesta è stata definita Belgiangate. Nel fascicolo non è mai emerso un solo fatto di corruzione, tutto si fonda sul nulla e se così non fosse oggi non saremmo qui a parlarne».