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L’INTERVISTA CONTESTATA
Il giudice Antonio Esposito non si era dato per vinto, dopo la sentenza di primo grado che nel 2017 aveva rigettato la sua richiesta di risarcimento contro il Mattino. Non era diffamatoria l’intervista del Mattino a Esposito, il giudice che condannò Berlusconi
Il giudice Antonio Esposito non si era dato per vinto. Dopo la sentenza, del 24 gennaio 2017, della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli che rigettava la richiesta di risarcimento di due milioni di euro da lui avanzata nei confronti dell’ex direttore responsabile del Mattino Alessandro Barbano, del giornalista Antonio Manzo e della società editrice del quotidiano, difesi dall’avvocato Francesco Barra Caracciolo, il magistrato aveva proposto appello. Ma anche questa volta il risultato è stato lo stesso: la sesta sezione civile della Corte d’appello di Napoli ( presidente Antonio Quaranta, consigliere Erminia Baldini e relatore Giorgio Sensale) ha rigettato la richiesta dell’ex giudice della Suprema corte.
Il motivo del contendere è l’intervista, pubblicata dal Mattino il 6 agosto 2013, a firma di Antonio Manzo. Un’intervista che fu un vero e proprio terremoto. Fece saltare dalla sedia magistrati, politici e giornalisti, con un’opinione pubblica che rimase perplessa sulla vicenda. Si trattava della condanna di Silvio Berlusconi, in via definitiva, a 4 anni di reclusione, per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset, decisa dalla seconda sezione penale della Cassazione, presieduta appunto dal giudice Esposito.
Era il 3 agosto del 2013. Le redazioni erano in fermento e il giornalista del Mattino Antonio Manzo riceve una telefonata da un amico di vecchia data: il giudice Antonio Esposito. Forse, come ha ricordato Manzo, voleva condividere «una comprensibile “accelerazione emotiva”». I due concordano una intervista che Esposito avrebbe concesso, sempre per telefono, quattro giorni dopo.
Quei 34 minuti di chiacchierata rappresentarono per il Mattino uno scoop, con il titolo “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere. Il giudice Esposito spiega la sentenza: era a conoscenza del reato”, ma anche una querela per diffamazione al giornale e al giornalista. Esposito accusa Manzo di aver manipolato una chiacchierata, ma sia la quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, sia la sesta sezione civile della Corte d’appello partenopea non hanno ritenuto sufficienti le motivazioni degli avvocati Franco Iadanza, Alfredo Iadanza e Alessandro Biamonte per “accertare la responsabilità e dichiarare il carattere falso, diffamatorio, e perciò lesivo, del contenuto dell’articolo”.
I giudici di appello chiariscono che “resta fermo il diritto del giornalista alla libertà di informazione e di critica, salva la diversa questione della verità sostanziale dei fatti pubblicati ( ossia delle dichiarazioni dell’intervistato), sancito dall’articolo 2 della legge n. 69 del 1963”. Per i giudici “il principio di verità risulta nella sostanza rispettato ove il giornalista pubblichi ciò che l’intervistato ha dichiarato e non quanto, invece, sia stato ex post eventualmente concordato, onde il tema centrale del giudizio resta quello delle alterazioni introdotte nell’articolo pubblicato e se, quindi, si sia trattato o no di un’operazione di editing compiuta entro i limiti della liceità”.
Concetto che ribadisce quanto stabilito in primo grado e cioè che la rivelazione fosse «sostanzialmente corrispondente al contenuto dell’intervista, come si apprezza dall’ascolto della registrazione».
Sul rispetto della “verità sostanziale dei fatti” i giudici di appello hanno specificato che “occorre premettere che l’occasione e la ragion d’essere dell’intervista s’incentravano sulle sorti del processo Mediaset, onde il dott. Esposito era ben consapevole ( o avrebbe dovuto esserlo) che l’intervistatore per il rilevantissimo interesse pubblico della vicenda, avrebbe cercato di ottenere notizie sulle ragioni della decisione e sull’andamento della camera di consiglio”. Anche sul cuore delle doglianze del giudice Esposito, l’episodio del presunto criterio valutativo del “non poteva non sapere”, riferito a Berlusconi, i giudici dell’Appello chiariscono: “In effetti, al di là delle dedotte ragioni giornalistiche ( di maggiore comprensibilità del testo) che hanno indotto l’articolista a modificare ( non la risposta dell’intervistato ma) le parole dell’intervistatore, l’alterazione della verità dei fatti consiste non nell’avere mutato il senso delle dichiarazioni dell’intervistato ( la cui verità sostanziale è rimasta immutata), ma nell’avere trasformato una dichiarazione spontanea ( di significato univoco) nella risposta a una domanda specifica”. Anche sulla titolazione dell’articolo de Il Mattino aggiungono che “esprimono in forma riassuntiva quella che, nel corpo dell’intervista, era l’affermazione di maggiore interesse pubblico, volta essenzialmente a smentire che, per Berlusconi ( come per qualsiasi altro imputato), la condanna penale potesse derivare non dalla prova certa della responsabilità ma dall’applicazione di mere presunzioni: è ben evidente, al riguardo, che il “sapere”, in quanto contrapposto al “non potere non sapere”, indichi non la mera conoscenza di reati altrui, ma la consapevole partecipazione alla loro commissione”.
La Corte d’appello di Napoli nega “che le conseguenze lamentate dall’appellante siano derivate da alterazione del contenuto dell’intervista”. Intervista che il giudice “abbia accettato di concedere, essendo palese dalla conversazione telefonica la piena consapevolezza dell’odierno appellante, fin da subito, che si trattava di un’intervista destinata alla pubblicazione e non di una conversazione privata”.
A SINISTRA IL GIUDICE ANTONIO ESPOSITO; IN ALTO ALESSANDRO BARBANO E SOPRA ANTONIO MANZO