SENZA PROPORZIONALE CENTROSINISTRA NEI GUAI

Non c'è bisogno di essere politologi sopraffini per capire che i due “campi” che si stanno per affrontare nelle prossime elezioni sono pura finzione e che per il sistema politico il solo modo davvero onesto di presentarsi di fronte all'elettorato sarebbe con un sistema proporzionale. Il campo largo di Letta ormai è un colabrodo E il 5% di Calenda stravolge gli equilibri

Il centrosinistra arriva polverizzato alle urne mentre il centrodestra troverà una sintesi

Non c'è bisogno di essere politologi sopraffini per capire che i due “campi” che si stanno per affrontare nelle prossime elezioni sono pura finzione politica e che per il sistema politico il solo modo davvero onesto di presentarsi di fronte all'elettorato sarebbe con un sistema proporzionale e ammettendo che su quel che succederà a urne chiuse nessuno può prendere impegni tassativi. Non succederà.

La finestra rimasta a disposizione per avviare almeno una riforma elettorale, tra le elezioni amministrative- referendarie e la fine dell'estate, è troppo stretta, la determinazione delle forze politiche troppo fiacca, l'ora del voto politico troppo vicina per farcela. Dunque i leader dovranno fare i conti con la legge che c'è e cercare di smerciare quel che hanno a disposizione: i “campi” appunto, che prima si chiamavano coalizioni e prima ancora poli. I giochi semantici sono una specialità della politica italiana ma in questo caso corrispondono a differenze reali. I “poli” erano tali perché c'era un bipolarismo, claudicante finché si vuole ma interiorizzato dal corpo elettorale persino più che dai suoi rappresentanti politici. Non è più così e i “campi” devono proprio supplire alla fine del bipolarismo mimandolo senza poterlo ricostruire. Le “coalizioni”, pur se spesso coatte e costrette, rispondevano a un'esigenza e a domande che non erano solo la convenienza elettorale.

Avevano uno scheletro e una testa: la leadership era chiara, la decisione di governare insieme, almeno nella prima fase dopo le elezioni, magari non era granitica ma certamente salda. I “campi” sono nella migliore delle ipotesi un auspicio di futura maggioranza di governo. In questo quadro nebbioso il centrodestra, con tutte le sue profondissime divisio-ni, si muove con maggior agio della controparte. Si tratta di partiti che si sono già presentati insieme, godono ancora, come luce riflesso, dell'eredità dei vecchi poli berlusconiani. E' più che possibile che il loro “campo” si frantumi dopo il voto, essendo fortemente dubbia la reale disponibilità di Lega e Fi a consegnare palazzo Chigi a FdI. Ma alle elezioni ci arriveranno insieme e riusciranno a ripescare nel magazzino della gloriosa destra unita dell'età berlusconiana qualche vessillo comune da sbandierare: il presidenzialismo, la guerra contro le tasse, la politica migratoria restrittiva.

Sul versante sinistro le cose stanno molto diversamente. Qui anche solo arrivare alle urne con una parvenza di unità è impresa quasi disperata. Tra il Pd e i 5S, cioè tra le due colonne del campo, la differenza non riguarda alcune questioni particolari, magari importantissime come le armi all'Ucraina ma comunque circoscritte. Non è neppure solo una questione di approcci diversi, a volte antitetici, su svariati fronti: il ruolo dei voluminosi “programmi elettorali”, altrimenti superflui, è proprio fingere di aver ricomposto le divisioni. Il nodo qui è però molto meno districabile, perché sin dall'inizio Letta ha immaginato il suo “campo largo” come un alleanza gerarchicamente dispari, con il timone saldamente nelle mani del suo partito e il ruolo degli alleati non inesistente ma certo limitato. E' nei confronti di questa visione, che a breve costringerebbe il Movimento in un ruolo ancillare e ne sancirebbe poi la scomparsa, che Conte ha iniziato a scalpitare sin dall'elezione del presidente e anche da prima. Letta, d'altra parte, se anche volesse e potesse riequilibrare i rapporti con i 5S potrebbe farlo solo in misura limitata, dovendo fare i conti con una agguerrita minoranza interna che non vede l'ora di denunciare l'accordo con i 5S. L'ex premier, dal canto suo, non può che forzare la mano insistendo con la polemica perché dare al suo partito un'identità autonoma e marcata prima delle elezioni è questione di vita o di morte e con una opposizione interna guidata dal ministro degli Esteri che lo incalza l'obbligo è doppio. Non è il solo scoglio per Letta. I sondaggi registrano una lenta ma continua crescita di Azione, il partito di Calenda. Sarebbe oltre il 5% ed è una percentuale che inizia a essere essenziale per il “campo largo”. Ma il rifiuto di qualsiasi alleanza con i 5S è costitutivo di Azione e Calenda non potrà che metterla come un aut aut, costringendo Letta a scegliere. Almeno nella sfida per aggiudicarsi la posizione di partenza migliore Letta sembra condannato a partire in svantaggio ma con di fronte un campo altrettanto devastato ogni esito, non solo nelle urne ma soprattutto dopo la loro chiusura, è aperto.

NELLE IMMAGINI PICCOLE A SINISTRA I 5STELLE ETTORE LICHERI, E SIMONA NOCERINO