Sì è vero, suonava un po’ come un avviso. Non minaccioso, ma si potrebbe dire collaborativo. Nel lungo comunicato, ricco di spunti, con cui la Camera penale di Napoli aveva commentano il 5 ottobre scorso la nomina di Nicola Gratteri al vertice della Procura partenopea, c’erano garbo, disponibilità al confronto ma anche franchezza. «Vogliamo essere onesti fino in fondo», avevano scritto gli avvocati, «avremmo preferito un profilo diverso alla guida della Procura napoletana, meno operativo/ militare, poiché il problema, a Napoli forse più che altrove, non è fare tabula rasa del passato quanto comprendere e governare la complessità».

Sarebbe stato ipocrita metterla diversamente. E anche un po’ scorretto nei confronti dei colleghi calabresi, citati dai penalisti napoletani per le «condivisibili iniziative di protesta» conseguenti a «alcune innegabili torsioni avvenute nei processi di criminalità organizzata». Di fronte a questa schietta ma anche costruttiva analisi, il neo procuratore di Napoli aveva due strade: una replica argomentata o l’ironia.

Nel proprio intervento di mercoledì sera a Otto e mezzo, il magistrato ha optato per la seconda soluzione. Ma l’ha condita con una punta di curaro che c’entra poco sia con la schiettezza sia con la proposta di dialogo della Camera penale napoletana: «È da una vita che mangio pane e veleno. Io sono stato nella foresta amazzonica a combattere i narcos colombiani e in Aspromonte a combattere contro i capimafia della ’ndrangheta, figuriamoci se posso essere preoccupato di una lettera degli avvocati della Camera penale».

Gratteri è troppo intelligente perché possa sfuggirgli che una frase simile sarebbe stata interpretata anche come una provocatoria analogia.

E così ieri il presidente dell’Unione Camere penali italiane Francesco Petrelli non ha potuto che replicargli come segue: «Il dottor Gratteri, nel rispondere a Lilli Gruber sulle critiche mossegli dalla Camera penale di Napoli, ha ritenuto di dover fare riferimento ai suoi passati confronti con narcotrafficanti terroristi e ’ndranghetisti. Possiamo interpretare la sua risposta solo come una caduta di stile di cui scusarsi oppure come una conferma di un modo di confrontarsi con la realtà che gli fa porre sullo stesso piano chi nell’avvocatura lo critica con le stesse organizzazioni criminali che doverosamente combatte». Non il massimo degli inizi. E gli stessi penalisti napoletani dovranno forse passare dalla schiettezza all’elmetto. Proprio come i loro colleghi calabresi.