«Non ricordo nulla, ho preso la scossa al cellulare». A dirlo in aula a Reggio Emilia, lunedì, è stata la madre di due bambini allontanati dai genitori in Val d’Enza, coinvolti nei presunti affidi illeciti finiti al centro del processo “Angeli&Demoni”. Bambini finiti nelle maglie dei servizi sociali non per puro caso, ma dopo un fatto ben preciso: la segnalazione in guardia medica - e poi ancora in pronto soccorso pediatrico - da parte della stessa donna, di un presunto abuso subito dalla figlia, al punto che la lettera di dimissioni dall’ospedale indica quale diagnosi “sospetto abuso sessuale intrafamiliare”. Un sospetto abuso che, stando alle dichiarazioni della donna, sarebbe stato commesso dal marito. La «scossa» avrebbe però “azzerato” la sua memoria proprio in riferimento a quei giorni e ai pochi giorni successivi, lasciando intatto tutto il resto. Un fatto a dir poco anomalo, sebbene la donna abbia parlato dei suoi sospetti in ospedale davanti a numerosi medici, ribadendoli, sempre in ospedale, ai carabinieri che raccoglievano la sua dichiarazione. La donna aveva descritto anche il pregresso dei sintomi della figlia, vale a dire tracce di secrezioni sulle mutadine, e i forti patiti quel giorno alle parti intime, tanto forti da farla piangere, fatti che hanno trovato un possibile riscontro nell’arrossamento rilevato sia dalla guardia medica che dall’ospedale. La presunta perdita di memoria ha fatto saltare sulla sedia gli avvocati della responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, Federica Anghinolfi. «Siamo di fronte ad un vuoto di memoria selettivo. Bisognerebbe intimare ai testimoni di dire la verità», ha commentato Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, di Anghinolfi. Una testimonianza «assurda», secondo il legale, che ha chiesto alla donna se conoscesse le condizioni mediche del terzogenito - che ha una diagnosi di autismo severo -, disturbo che la madre ha dapprima dichiarato di non conoscere, salvo poi doverlo ammettere. La donna vive in Italia proprio con questo bambino, lontana dagli altri due, che si trovano nel Regno Unito con il marito, «che ha paura del sistema giudiziario italiano, mentre in Ghana le cose si sarebbero risolte molto prima e molto meglio per tutti».

Ma l’udienza di lunedì ha portato in aula anche Ilaria Scotti, coordinatrice e operatrice del centro famiglie in Val d’Enza e assistente sociale all’epoca di un caso che aveva avuto riscontri anche sotto il profilo sanitario con valutazioni della pediatra della minore, e Antonella Tesauri, assistente sociale, che a sua volta ha firmato relazioni relative a casi anche questi non oggetto del processo. A domanda dell’avvocato Mazza, le due professioniste hanno però risposto di non aver mai subito pressioni da parte di Anghinolfi o da altri per modificare o alterare le relazioni. Ma non solo: Scotti ha affermato che al rientro dalla maternità, nel 2015, aveva trovato i servizi più attenti e maggiormente capaci di offrire protezione ai minori. Il che non significava soltanto valutare l’allontanamento come soluzione principale, ma anche azioni di sostegno alla genitorialità. Grande attenzione è stata dedicata alla presunta rete di pedofili “attiva” a Reggio Emilia, che la pm Valentina Salvi ha definito “setta”: a scatenare tale sospetto negli imputati era stato il caso di una 15enne costretta dalla madre ad avere rapporti sessuali a pagamento con uomini adulti. A seguirla, prima che svelasse gli abusi, era stato Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali oggi a processo. Dopo circa un anno e mezzo, Sara - nome di fantasia - rivelò alla psicologa gli abusi subiti, facendo venire fuori uno spaccato inquietante. Tutto era cominciato con un annuncio pubblicato su una rivista locale, nella sezione escort, consegnato alla redazione proprio dalla madre - che l’aveva spacciata per 18enne -, con tanto di carta di identità allegata. Sono circa venti le persone che fu costretta a incontrare, alcune più volte, per un totale di circa 8mila euro. A confermare la storia furono le intercettazioni, le testimonianze e, soprattutto, le parole della ragazza, il cui racconto, appuntarono i giudici in sentenza nel 2016, presentava le caratteristiche di «coerenza, linearità, precisione, assenza di enfatizzazione». Parole supportate, per i giudici, dalle relazioni di Monopoli e della psicoterapeuta della onlus “Hansel&Gretel” Nadia Bolognini, anche lei a processo in “Angeli&Demoni”. Da qui la condanna della madre e l’avvio, da parte della procura di Reggio Emilia, di un’indagine su un possibile giro di prostituzione minorile, estesa anche a personaggi facoltosi della Val d’Enza. Un’inchiesta enfatizzata dai giornali nel 2015 e della quale, da un certo momento in poi, nessuno ha più parlato. Nessuno tranne Monopoli, Anghinolfi e Bolognini, profondamente preoccupati dalla situazione, tanto da chiedere, sul punto, molta riservatezza ai colleghi. E ciò anche per via dei numerosi atti intimidatori subiti: nel 2012, come emerso dalle indagini difensive condotte da Nicola Canestrini, difensore di Monopoli, erano state forzate le porte dell’Unione Val d’Enza, da dove erano stati portati via documenti, computer con le cartelle sui casi, videocamere e cellulari. Nel 2015, invece, il servizio sociale era stato vittima di un attacco informatico: tutti i dati contenuti nel server e nel disco di backup dell'Unione erano stati cancellati. Ma non solo: sempre nel 2015, nel cimitero di Reggio Emilia, erano stati trovati due polli decapitati, avvolti in uno straccio nero e, poco lontano, un pezzo di carta bruciacchiato su cui era scritto il nome “Francesco”. A ciò si aggiungono le preoccupazioni delle educatrici, seguite o minacciate dai padri di alcuni minori allontanati: a una di loro è stata anche forzata l’auto, fatto poi denunciato alle forze dell’ordine.

Nel corso dell’udienza, Mazza ha, ancora una volta, contestato il metodo dell’accusa: ad ogni “non ricordo” dei testi, infatti, la pm replicava leggendo le sit e chiedendo conferma. «Questo è il codice del 1930 - ha affermato l’avvocato -. Già è dubbio che la contestazione possa aiutare la domanda, ma quantomeno si dovrebbe chiedere se, alla luce della stessa, il teste ricordi qualcosa e non se conferma. Sono questioni di primaria importanza per valutare la validità della prova e la credibilità dei testi».