Da quando Viktor Orban e la sua Fidesz sono saliti al potere nel 2010, l’Ungheria ha subito una decisa svolta populista che ha dato la spinta a iniziative ultraconservatrici e di attacco sistematico a diversi diritti fondamentali. È lo stesso Orban che con grande fierezza respinge l’idea di democrazia liberale modello dell’Ue, definendo “illiberalismo” il suo credo politico. Per il Parlamento europeo, che da anni tiene Budapest sotto osservazione, si tratta di un «ibrido di autocrazia elettorale» come sottolineato anche dall’Ocse per la quale le elezioni in Ungheria sarebbero «libere ma distorte».

Nel corso degli anni il blocco di potere di Orban ha così applicato un’agenda palesemente illiberale in vari settori della vita pubblica entrando in rotta di collisione con le istituzioni comunitarie in un continuo tira e molla di sanzioni e fondi congelati.

Dall’attacco alla separazione dei poteri, alle bordate a testa bassa contro il pluralismo politico e gli organi di informazione non governativi. Budapest ha limitato la libertà di stampa attraverso leggi “anti fake news” degne della Russia di Putin o della Turchia di Erdogan, introducendo una pena detentiva di cinque anni per chiunque riporti informazioni errate sulla pandemia oppure sulle misure del governo, nominando dei dirigenti di Fidesz negli organi di controllo dei media nazionali.

Il governo ha inoltre messo sotto tutela l’intero sistema giudiziario attraverso leggi che limitano l’indipendenza dei tribunali e dei magistrati. Di fatto, il potere giudiziario e quello mediatico sono diventati una variabile dipendente del potere esecutivo e legislativo, mandando in frantumi uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Per chi ha seguito la deriva anti-democratica del decennio “orbaniano” le immagini, terribili, dell’italiana Ilaria Salis, trascinata in un’aula di tribunale con le manette ai polsi e alle caviglie , non creano particolare stupore.

Se lo scorso maggio, per tentare di sbloccare i finanziamenti dell’Ue (circa dieci miliardi di euro), il governo ungherese ha varato una timida e incompleta riforma della giustizia che dovrebbe rafforzare l’autonomia della magistratura, troppe rimangono le violazioni compiute dal governo incompatibili con gli standard europei.

Anche nel campo dei diritti civili le cose infatti non vanno meglio, basti pensare alla crociata contro le persone gay e le comunità Lgbtq, alla lunare associazione tra omosessualità, questioni di genere e pedofilia che caratterizza la “legge per la protezione dell’infanzia” censurata da Bruxelles e dal Consiglio europeo, o i provvedimenti contro le ong rivolti principalmente contro la Central European University, fondata proprio dal miliardario statunitense di origine ungherese George Soros noto per le sue idee progressiste e definito da Orban «una forza oscura che minaccia la sovranità dell’Ungheria». In questa offensiva politica e culturale la parola d’ordine è: preservare l’identità nazionale magiara, un’eccezione culturale e linguistica circondata e minacciata dagli vicini slavi e germanici, ma soprattutto dagli immigrati di religione musulmana che, con la complicità delle ong, vorrebbero recidere le radici spirituali della società ungherese.

L’operazione di recupero comprende anche e soprattutto l’identità religiosa, il cristianesimo che scorre nelle vene della nazione, la beatificazione della famiglia tradizionale, le critiche alla “dissolutezza morale” dell’Occidente con le sue “devianze”, il grande potere accordato alla Chiesa ungherese e alle scuole cattoliche, l’introduzione della teoria del “disegno intelligente” da contrapporre all’evoluzionismo darwiniano nei programmi ministeriali. Poi ci sono le espulsioni di massa di migranti minorenni in fuga dalle zone di guerra e le misure per rendere impossibile l’ottenimento del diritto d’asilo per gli stranieri. Anche l’invasione russa dell’Ucraina ha provocato ulteriori fratture con gli alleati europei; come fosse una quinta colonna del Cremlino, Budapest ha infatti posto il veto sul pacchetto da cinquanta miliardi di euro di aiuti destinati a Kiev ricevendo da Bruxelles la minaccia di nuove sanzioni economiche e il congelamento di un prestito di venti miliardi. Un tira e molla sfibrante in cui Viktor Orban sembra avere sempre il coltello dalla parte del manico.