Liana Milella l’avete vista arrivare per prima nei palazzi di giustizia, al Csm, e pure alla Consulta. Ma di certo non l’avete vista sorseggiare un aperitivo ai tavolini di un bar, figuriamoci godersi una cena al ristorante. Il privilegio tocca a noi, ma solo perché si tratta di una colazione francese. Due ore rubate al rullo delle notizie. Poi si fila dritte alla scrivania per scrivere un nuovo pezzo del romanzo giudiziario consegnato a rate sulle colonne di Repubblica.

Liana Milella fa questo da trent’anni: firma la giustizia, e alla fine la giustizia è diventata il suo nome. Tutto il resto è un optional, per la giornalista con la toga sulla penna. E difatti Toghe è anche il titolo del suo blog, che poi è diventata una newsletter letta dal pianeta giuridico senza risultare indifferente alla politica. «Diciamo che mi sento osservata, ma non lo dico per me, lo dico per il clima che c’è: non sei più libero di raccontare i processi perché poi dicono che fai il portavoce delle procure».

Liana Milella è venuta con l’armatura. Non cerca il ritratto, ma ci ha concesso lo sfizio. Riluttante alle domande come chi le fa di mestiere. «Spero di non dare l’impressione di essere arrogante o prepotente, perché uno si deve pure difendere dall’aggressività». Ma nel bar francese il clima è sereno. La riforma Nordio le ha tolto un po’ di sonno. Ma ora si può tirare un respiro almeno per un cappuccino ben fatto. Non come quelle patate al microonde che Milella si ritrova per cena perché ha lavorato ben oltre il tramonto. «Una prigione», dice prima di accettare l’invito. Ma è una prigione dolce per Liana Milella il suo mestiere: niente di melenso, fare la cronaca è solo una cosa che le è venuta bene. Prima a Bari, da ragazza, con il Corriere della Sera. Poi «per la prima volta una donna è comparsa alla Gazzetta del Mezzogiorno». Cronaca del palazzo, dietro i consigli comunali. Dopo cinque anni il colpo: Milano con Il Sole 24 ore. Le pagine di cultura della domenica e la svolta professionale: «Gianni Locatelli ha deciso di puntare sul Mezzogiorno e sul rapporto mafia-impresa».

Milella gira tutto il sud. «Poi, beh, Tangentopoli. E a Palermo ho conosciuto Falcone». Panorama dal ’93, Roma, e infine Repubblica. Nella penna di Milella c’è anche un pezzo di storia del paese, a tu per tu con Buscetta. «Un paio di interviste quando era negli Stati Uniti, prima che si ammalasse. Mi prendeva in giro quando facevo certi discorsi e diceva: “tu non sei stata mafiosa, sennò avresti 200 omicidi addosso”». Il discorso a cui allude riguarda il suo carattere. Dice che non è buono. «Se fossi stato un maschio... beh, ci sono delle situazioni che vorrei sbrigare facendo a botte».

Ma per fortuna Liana Milella è una donna e infatti ha affinato l’arte che si nasconde nella sua chioma elegante. L’unico vezzo che la reporter si concede per interrompere il servizio. Siccome le risulta impossibile fissare un appuntamento, fosse pure il dentista, risolve con l’abnegazione. «Detesto gli appuntamenti, mi ostacolano, perché poi capita sempre qualcosa». C’è solo un modo per Liana Milella di fare la giornalista: fare quello e basta. «Quando lavori tutti i giorni vedi cose che gli altri non vedono, per la semplice ragione che non hai dei buchi. Poi certo, anche io vado dal parrucchiere». Ma sempre con la coda dell’occhio sulle agenzie, dietro la notizia.

«Ho un senso del dovere molto sviluppato quindi il lavoro viene prima di qualsiasi altra cosa, la vita privata è secondaria». Fatta eccezione per gli otto amatissimi gatti, di cui uno in vita, che le hanno insegnato lo stile di vita. «Una grande avventura affettiva. Ora sono tutti nelle loro urnette». Non ha mai avuto tempo per un partner, che diciamolo poteva solo risultarle di intralcio, e il grande amore è sua sorella di otto anni più piccola. «Troviamo sempre il modo di mangiare parlandoci al telefono». Sull’asse Roma-Bari condividono la passione per gli animali, origini marchigiane da parte di madre e papà pugliese.

Liana Milella, vegetariana doc. Nata a Macerata, cresciuta e laureata a Bari in filologia classica, e infine arrivata fino a Palermo, dove l’abbiamo lasciata nei pressi di Falcone. «Ho conosciuto i colleghi dell’antimafia, ho vissuto l’atmosfera fortemente divisiva del Palazzo di Giustizia di Palermo. Le angosce di Falcone rispetto al rapporto con i colleghi». Ne ha pubblicato i Diari quando è morto. E si ricorda bene quel giorno del 1992. Divisa tra Palermo e Milano, lascia Mani pulite per precipitarsi nel luogo della tragedia.

Insomma, sospira Milella: sono stati anni pesanti. «Anni sul campo che a rivederli adesso dopo 30 anni... non hai fatto solamente cronaca, hai vissuto un pezzo della storia, della terrificante storia di questo paese di cui a tutt’oggi non sappiamo completamente la verità». Il giudice ammazzato a Capaci? «Ha messo in piedi un processo che è una pietra miliare di questo paese. Ha aperto una porta fino a quel momento chiusa, serrata per le complicità dello Stato sulla criminalità di questo paese che ha prodotto omicidi. Questo non ce lo dobbiamo dimenticare, perché sembra che ce lo stiamo dimenticando».

Di storie e processi Milella ne ha seguiti. E non si pente di nessuna delle sue mosse. Neanche di aver tradito la fiducia del pm partenopeo Henry John Woodcock per un’intervista strappata. Quella volta aveva vinto la smania dello scoop, il demone del giornalista che invece ha fatto un passo indietro per l’affaire dei verbali di Amara. Le sono arrivati direttamente a casa. «E sono stati una rogna infinita». Ecco di cosa si pente: «Secondo me i giornalisti che ricevono le carte non devono denunciare niente, devono scrivere». Lei invece ha denunciato e ha pure testimoniato a Brescia nel processo a Davigo. Ha testimoniato al Csm, per un’ora, per il caso Consip. E non sopporta che le dicano, come le hanno detto sul Foglio, che “scrive con le manette”, Milella la “sacerdotessa della giustizia”. «Io sarò libera in un mio pezzo, sia esso scritto con delle citazioni o con un’intervista, di dare voce a quello che pensa il mio interlocutore? Questi signori del Foglio, che io leggo da una vita incazzandomi ogni mattina, mi conoscono? Mi hanno mai chiamato?». E ancora: «Cosa si sta pretendendo, che il giornalista sia un robot? Io non rinuncio alla mia ideologia nello scrivere».

Liana Milella sente un clima illiberale, evoca la censura. A breve compie 72 anni e non le piace il sentiero che abbiamo imboccato. Le sembra che i giornalisti oggi usino i guanti di velluto, ai quali lei preferisce di gran lunga i guantoni da sfoderare nel genere dell’intervista. Di sua è nota nell’ultimo anno quella al deputato Enrico Costa dopo il sì alla “legge bavaglio”: poteva sembrare una questione personale.

Il «nemico giurato della giudiziaria» al corpo a corpo con la regina della giudiziaria. Definizione, quest’ultima, che lei rifugge, rivendicando invece la reputazione di intervistatrice severa. Se la scoccia la fama di “cattiva”? «No, va benissimo. Se per “cattivo” si intende l’essere competitivi nel proprio lavoro, estremamente rigorosi con le fonti e anche non accondiscendenti». Non si confessa, Milella. Non crede, né cerca Dio: si attiene ai fatti. E li racconterà, statene certi, finché lo troverà divertente. Ma non chiedetele di intervistare un avvocato...