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Servirà un nuovo giudizio per stabilire se Stefano Binda, in carcere per oltre tre anni ingiustamente per l’omicidio della giovane Lidia Macchi, vada risarcito o meno per il torto subito. La Corte di Cassazione ha infatti annullato con rinvio la sentenza con la quale ad ottobre scorso la Corte d'Appello di Milano aveva accolto l’istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione patita da Stefano Binda, rimasto ingiustamente in cella 1.286 giorni.
I giudici avevano riconosciuto a titolo di indennizzo la somma di 303.277,38 euro, una cifra che avrebbe dovuto rappresentare le scuse dello Stato per quell’umiliazione subita da innocente a trent’anni dal delitto. Ma la Cassazione ha accolto la richiesta della procura generale, secondo cui «con i suoi silenzi» Binda avrebbe «contribuito all'errore sulla sua carcerazione». Si tratta di una questione giurisprudenziale di rilievo, dal momento che la facoltà di non rispondere è un diritto dell'indagato e che la recente normativa sulla presunzione d'innocenza ha ribadito che tale condotta non incide sulla riparazione per ingiusta detenzione.
L’assist per la procura generale era arrivato dalla IV Sezione della Cassazione, secondo cui «la condotta mendace» negli interrogatori costituisce «condotta fortemente equivoca» tale, evidentemente, da creare concorso nell'errore. Binda era stato condannato all'ergastolo in primo grado nel 2018 a Varese e poi assolto in appello, sentenza confermata dalla Cassazione. In carcere ha trascorso circa tre anni e mezzo ma non rispondendo all'interrogatorio di garanzia dopo il suo arresto, secondo i magistrati, avrebbe contribuito «all'errore sulla sua carcerazione».
Binda, assistito da Patrizia Esposito, era stato arrestato all’alba del 15 gennaio 2016, con l’accusa di aver ucciso la 21enne, violentata e uccisa con 29 coltellate nel 1987 a Cittiglio (Varese). È rimasto in carcere fino al 24 luglio 2019, quando la corte d’Assise di Appello ha ribaltato la sentenza dei giudici di primo grado assolvendolo. Il 27 gennaio 2021 la Cassazione ha dunque messo la parola fine sulla vicenda, confermando l’assoluzione.
«È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri», aveva raccontato al Dubbio subito dopo la decisione della Suprema Corte. Il suo nome era stato tirato in ballo con un colpo di scena degno di un crime movie: una lettera anonima contenente una poesia - “In morte di un’amica” - con dettagli che solo l’assassino poteva conoscere e recapitata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza. Poesia che, secondo la ricostruzione dell'accusa, fu scritta proprio da Binda. Ma l’assassino non era lui.
«Esperienze come questa lasciano macerie. Ho attraversato gli estremi del codice - ci aveva spiegato -, dalla pena massima all’assoluzione con la formula piena. Sono stato sfortunato nel primo grado o sono stato fortunato oggi? Credo che bisogna interrogarsi su quanto il sistema sia affidato alle scelte dei singoli, di quali garanzie dia. Francamente, come cittadino, non mi sembra responsabile dire che il sistema funziona sulla base della logica “tutto è bene quel che finisce bene”. È una sciocchezza. Ho passato tre anni e mezzo in carcere, il che vuole dire essere stato messo in pericolo. Il sistema giustizia non può non farsi carico di queste cose. È importante e delicatissimo. Ma a questo livello il dibattito pubblico è insufficiente e l’impostazione culturale non è all’altezza». Secondo Binda, era stato montato «un processo indiziario», che nonostante le prove a discarico si era concluso con l’ergastolo.
L’unico elemento in mano all’accusa era quella famosa lettera anonima, attribuita a Binda da una consulenza di parte, smentita, ovviamente, da quella della difesa. «A fronte di ciò, la mia consulente è stata querelata per diffamazione e addirittura la procura generale ha chiesto che venisse depennata dall’albo dei consulenti - ha raccontato Binda al Dubbio -, alla quale peraltro l’esperta della procura non è mai stata iscritta. Fortunatamente il consiglio dell’ordine dei consulenti tecnici ha manifestato la massima fiducia in lei».
Binda, peraltro, aveva un alibi: dall’1 al 6 gennaio si trovava in vacanza a Pragelato. «La stessa Patrizia Bianchi (la superteste che ha affermato di aver riconosciuto la grafia di Binda, ndr) mi ha sentito fino al 31 per farmi gli auguri e poi il 7. Nessuno mi ha visto da nessun'altra parte, men che meno a Cittiglio, e tre testimoni ricordavano di avermi visto a Pragelato - aveva spiegato -. Ci sono prove documentali, ovvero una mia agenda che riportava i nomi delle quattro persone che erano in stanza con me e le indagini hanno portato a evidenziare che in quell’albergo c’era un unico piano con una stanza da cinque persone. Quindi io avrei dovuto inventarmi il numero di una stanza che era l’unica per cinque persone, scrivere il nome di quattro persone che davvero c’erano e che si sono ricordate di essere in stanza insieme, toglierne una che non si è mai fatta avanti e sostituirmi a lei. Un’assurdità. E sto citando i verbali».
Anche se la perizia grafologica attribuì quella lettera a Binda, l’esame del dna trovato sulla busta non diede esito positivo. Così come quello trovato sul corpo della giovane vittima non corrispondeva a quello di Binda: sul cadavere furono infatti trovate quattro formazioni pilifere, tutte della stessa persona, ma non dell’imputato. Ciononostante «ho preso l’ergastolo», ha sottolineato. Le prove del dna furono infatti ritenute neutre. «Il dna è stato comparato con quello dell’addetto delle pompe funebri di allora, per verificare un’eventuale contaminazione, ma non con quello degli altri che erano stati sospettati prima di me - ha raccontato Binda -. La sentenza d’appello parla di deserto probatorio. Dice chiaramente che, consapevoli di non avere in mano niente, in violazione di legge, hanno approvato l’idea che l’autore del delitto dovesse avere un certo profilo per cucirmelo addosso».