Per quale motivo, a due settimane dall’arresto, Giovanni Toti non è ancora stato interrogato? Nonostante le ripetute richieste, solo giovedì, a quanto pare, il presidente della Regione Liguria potrà sedersi al cospetto dei magistrati. Che procedono con calma.

Apparentemente il rallentamento può sembrare un semplice piccolo dispetto, dal momento che il governatore, impossibilitato a leggere ottocento pagine di ordinanza di custodia cautelare in 48 ore, si è sottratto all’interrogatorio di garanzia da parte del gip, come previsto dalla legge che consente all’indagato di avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma l’apparente gioco del gatto che insegue il topo da parte della procura, a partire dal capo Nicola Piacente fino al sostituto Luca Monteverde, è più sottile.

Intanto perché si lascia l’indagato in graticola, a friggere senza poter avere contatti, se non indiretti, con il resto del mondo. E senza poter essere in grado di capire se, sul piano politico, la solidarietà intorno a lui continui a essere granitica come i primi giorni. E questo è il primo calcolo.

Il secondo è che nel frattempo il moscone inquisitore ha potuto continuare a ronzare intorno al governatore. Lungo due filoni di indagine. La prima consiste nelle audizioni di persone informate sui fatti, e a oggi sono già 14, che devono dire la verità a rischio di poter essere incriminate per false dichiarazioni al pm. Qualcuna delle quali, come per esempio la segretaria di Giovanni Toti, Marcella Mirafiori, non è indagata, per ora, ma è considerata figura importante nella ricerca di fondi per le campagne elettorali, tanto che i suoi cellulari sono stati sequestrati.

Non vorremmo che capitasse a Genova quel che è successo a Milano al processo Ruby ter, quando le deposizioni di alcune testimoni sono state in seguito annullate dal tribunale perché le “testi” avrebbero dovuto esser interrogate come indagate o imputate. Con tutte le garanzie e la presenza dei difensori. Sono “errori” che capitano quando il moscone ronza intorno al personaggio principale di un’inchiesta, prima che questo si sia ancora seduto sulla sedia davanti al pm e al gip per l’interrogatorio. E spera che una qualche testimonianza, i cui verbali poi il giornalista riesce furtivamente a carpire dalle maglie del segreto investigativo, vada ad arricchire il fascicolo del pm.

L’altro filone destinato a prolungare all’infinito i tempi fino al momento in cui Giovanni Toti potrà finalmente dire la sua, è quello che viene chiamato “La Bestia”, che altro non sarebbe se non un particolare software che i magistrati, o meglio la Guardia di Finanza, intendono usare per incrociare l’esame di ogni apparecchio elettronico di proprietà del governatore, con i conti bancari e le carte di credito. Signor mio, stanno dicendo in questi giorni gli uomini della procura all’avvocato Stefano Savi, difensore di Toti, si può fare tutto ciò in pochi giorni, per poter poi procedere all’interrogatorio dell’indagato numero uno prima del 23 maggio? Certo che no.

Certo, sarebbe stato grave se si fosse andati a votare senza sapere come si sarebbe difeso dalle accuse Giovanni Toti. Non si sarebbe potuto conoscere la posizione della difesa ma solo quella dell’accusa. Già una piccola caduta sui diritti dell’indagato era stata la risposta a muso duro della procura di Genova, quando aveva detto: non creda l’indagato di decidere termini e modi dell’inchiesta, il bandolo della matassa è nelle nostre mani. Una specie di “le faremo sapere”, quando si sa già che la risposta sarà negativa. Del resto provvedono già i solerti giornalisti amici della procura a precisare che Giovanni Toti avrebbe già rinunciato non a una ma a due occasioni per farsi interrogare.

Se la prima è quella nota, il fatto che il governatore davanti alla gip si sia avvalso della facoltà di non rispondere semplicemente per avere il tempo di conoscere i motivi sulla cui base la giudice non solo lo ha posto agli arresti domiciliari, ma ha impiegato oltre 800 pagine e cinque mesi di tempo per motivarlo. La citazione della seconda “occasione” è veramente singolare. Sarebbe il diritto a ricorrere al tribunale del riesame contro il provvedimento cautelare, iniziativa cui si ricorre in genere, ovviamente, dopo l'interrogatorio, cioè dopo che le carte delle parti sono state messe in tavola. O vogliamo pensare che la procura di Genova, tramite gli amici giornalisti, stia sfidando altri giudici ad avere il coraggio di annullare quell’ordinanza di custodia? In ogni caso i termini per quel ricorso sono scaduti.

E resta il fatto che tutta quanta l’inchiesta che ha portato due settimane fa agli arresti di Giovanni Toti, dell’imprenditore Aldo Spinelli, dell’ex presidente del porto di Genova Paolo Signorini e del capo di gabinetto del presidente della Regione Matteo Cozzani, nonostante la grande agitazione della procura, è ferma a quel giorno. Cioè a quei 74.100 euro di finanziamento regolare ai comitati elettorali che facevano riferimento a Toti. Che erano 40.000 più 15.000 più 15.000 più 4.100, nell’arco di tre anni. Con l’aggiunta di quel finto pasticcio su una frase della deposizione dell’imprenditore Roberto Spinelli, che ha parlato di finanziamenti “leciti”, aggettivo che è stato erroneamente verbalizzato come “illeciti”. E la procura che, quando la cattiva interpretazione del labiale è stata fatta notare, prima ha detto che avrebbe ricontrollato, poi, evidentemente accortasi dell’errore, ha liquidato la faccenda sostenendo che comunque era “ininfluente”.

Piccoli momenti di nervosismo. Rimane la sensazione, amara, anche perché troppo simile a tante altre precedenti, che si stia assistendo ancora alla costruzione del “tipo d’autore”, individuato il quale si va alla ricerca degli eventuali reati. E il moscone continua a ronzare intorno a Giovanni Toti. Fino a domani, quando finalmente sentiremo anche l’atra versione dei fatti, quella dell’indagato.