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Con la richiesta di otto mesi di carcere senza condizionale per i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, per rifiuto di atti di ufficio da parte della procura di Brescia, si sta ormai chiudendo il cerchio, in modo non positivo, sulla storia di quel rito ambrosiano che fu sul trono degli anni Novanta e è ormai sempre più nella polvere.
È la maledizione del “caso Eni”, che doveva essere la gemma più fulgida di quella storia, che è durata quasi trent’anni, per la procura più famosa d’Italia che diete i natali al poliziotto in toga più amato e venerato, e che invece ha portato solo sciagure. Le ha portate a Piercamillo Davigo, il giocoliere del “risolvo problemi”, le cui astuzie furono scambiate per sottili capacità giuridiche, oggi condannato già in appello a un anno e tre mesi di carcere per rivelazione di atti d’ufficio per la divulgazione di verbali legati proprio alla saga dell’Eni.
Con la sua vicenda ormai vicina a una chiusura non proprio commendevole, aggiunta a qualche figuraccia quando non se ne voleva andare dal Csm mentre era in età pensionabile e perse tutti i ricorsi di tipo amministrativo, sparisce la visione moralistica della giustizia, la lotta del Bene contro il Male, la purificazione della società dei disonesti da parte del pool di Milano dagli anni Novanta in avanti. Il povero Davigo si è ritrovato a dover interpretare le parti peggiori attribuite agli imputati di allora, l’insofferenza per il circo mediatico-giudiziario, la presunzione di innocenza di coloro che l’avevano fatta franca, gli inutili ricorsi dopo il primo grado di giudizio e la, sempre sacrosanta, condanna.
È stato poi il turno di Fabio De Pasquale, l’ex procuratore aggiunto di Milano cui il Csm ha rifiutato il rinnovo del ruolo, nonostante il parere favorevole dei “milanesi”, i suoi colleghi del consiglio giudiziario. Un pm di grande prestigio, che aveva portato alla condanna Bettino Craxi e poi, unica volta, anche Silvio Berlusconi. Uno che lavorava in proprio, dritto verso la meta. Ai processi Eni ha dedicato la vita e sono stati la buccia di banana che gli ha rovinato la carriera.
Porta oggi su di sé, oggi che al vertice della procura di Milano non ci sono più gli uomini di Magistratura democratica come Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco, ma un signore che tutti giudicano più equilibrato come Marcello Viola, le parole del Csm che gli ha negato il rinnovo della promozione. «Risulta dimostrata l’assenza dei prerequisiti dell’imparzialità e dell’equilibrio, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza senso della misura e senza moderazione».
Un bello schiaffo morale e anche politico non solo alla persona e a quel che ha rappresentato, ma soprattutto all’intera categoria sindacale dell’Anm, che sbandiera a ogni minaccia di separazione delle carriere da parte del parlamento o del governo, la mitica “cultura della giurisdizione” di cui sarebbe portatore il pm nell’attuale ordinamento. Eccola lì, come esercitata da uno dei pm più famosi.
L’inciampo del processo Eni è un altro schiaffo che brucia. È andata malissimo e avrebbe dovuto essere un caso clamoroso di corruzione internazionale. Si trattava della licenza di esplorazione, da parte di Eni E Shell, denominata Opl 245, relativa al più grande blocco petrolifero della Nigeria. Il costo dell’affare, un miliardo e trecento milioni di dollari, corrisposto dalle compagnie è, secondo i pm, troppo modesto, quindi sospetto. Si sente odore di corruzione.
Comincia così, e siamo nel 2001, quello che diventerà un processo-scandalo e che porterà, alla fine, all’assoluzione, in due diversi tronconi processuali, di tutti gli imputati, a partire dal presidente di Eni Claudio Descalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni. Dopo il primo grado, i pm De Pasquale e Spadaro non si arrendono e ricorrono in appello. Il primo chiede di poter stare in aula una seconda volta, ma il procuratore generale gli preferirà una pg dell’ufficio, Celestina Gravina. Sarà lei, con un gesto clamoroso e parole sferzanti nei confronti di chi quel processo aveva pervicacemente voluto, a rinunciare all’appello e a dichiarare «questo processo deve finire perché non ha fondamento» e ad accusare i pm di «colonialismo della morale».
Vicenda finita dunque? No, perché al processo di primo grado non erano state depositate prove che avrebbero portato molto prima all’assoluzione degli imputati. È stata la famosa affezione alla prima ipotesi, di cui soffrono i pubblici ministeri, a indurre Fabio De Pasquale e Paolo Spadaro a trascurare per esempio una videoregistrazione in cui alcuni testimoni dell’accusa si preparano esplicitamente a calunniare gli imputati? Ma c’è di più.
Non va dimenticato il tentativo maldestro di costringere il presidente del tribunale Marco Tremolada a autosospendersi dal processo. La famosa polpetta avvelenata consisteva nel tentativo dei due pm di far ammettere una testimonianza che avrebbe definito lo stesso presidente come persona “avvicinabile”. E il fatto grave è che quella deposizione era stata comunque inviata dal procuratore capo Francesco Greco e dall’aggiunto Laura Pedio alla procura di Brescia. Che per fortuna aveva archiviato, continuando invece a procedere, fino al processo e alle richieste di condanna di questi giorni, nei confronti di De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio.
Questo è stato il clima del rito ambrosiano di questi anni. Una bella lezione ancora non del tutto studiata. Anche se il cerchio delle responsabilità sta cominciando a chiudersi.