L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, «senza necessità alcuna, ha sapientemente portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull’operato della procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e sui due colleghi del Csm, dottori Mancinetti e Ardita». Sono parole durissime quelle della Corte d’Appello di Brescia, che il 7 marzo scorso ha confermato la condanna ad un anno e tre mesi inflitta all’ex pm di Mani pulite per rivelazione di segreto. Colpa dell’ex toga diffondere il contenuto dei verbali sulla presunta e inesistente Loggia Ungheria, ricevuti in maniera indebita dal pm Paolo Storari, che si era rivolto a lui per «sbloccare le indagini», denunciando una presunta inerzia da parte dei vertici della procura di Milano. Davigo, anziché suggerire al collega di seguire le vie formali, invitò diversi consiglieri del Csm a prendere le distanze dall’ex amico Sebastiano Ardita, inserito in maniera falsa in quella lista.

I giudici d’appello non hanno dubbi sulla colpevolezza di Davigo e anche sulla sua consapevolezza di agire violando le regole. Tant’è che avrebbe operato in modo tale «da insinuare, quantomeno, il dubbio nella maggior parte dei destinatari delle sue confidenze circa l’appartenenza ad una loggia massonica del dottor Ardita, così andando a lederne l’onore e il prestigio». Ed è indubitabile, afffermano i giudici, «che attribuire ad un magistrato la possibile appartenenza ad una loggia massonica equivale a consegnargli la patente di soggetto inaffidabile e infedele (...). Si tratta di un’accusa gravissima, tenuto conto del ruolo e della qualifica professionale rivestiti dal destinatario di questa e che, per ciò stesso, è in grado di minarne la sua credibilità, per come di fatto è avvenuto». I colleghi del Csm, infatti, ad eccezione di Nino Di Matteo, presero le distanze da Ardita, su suggerimento di Davigo, che aveva consigliato loro cautela. E la scelta dell’ex pm di diffondere i verbali, secondo i giudici non era dettata, come affermato, dalla volontà «di rimettere la vicenda sui binari della legalità»: se così fosse stato, secondo la sentenza, «egli avrebbe ben dovuto acquietarsi, una volta compulsato il vicepresidente del Csm e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Il fatto che, viceversa, l’imputato abbia avvertito l’esigenza di continuare a ledere l’onore della parte civile - e non solo - è comprensibile solo nella mirata strategia volta ad isolare la parte civile nei suoi rapporti istituzionali».

Davigo, d’altronde, sarebbe stato pienamente consapevole «dei limiti delle proprie attribuzioni», in quanto magistrato esperto e per giunta componente della Commissione regolamento del Csm, fatto che porta ad escludere, «radicalmente, che egli possa poi avere ritenuto di adempiere un dovere, che in alcun modo l’ordinamento gli attribuiva». Ed appare difficile sostenere «che egli non abbia avuto il tempo di comprendere appieno quanto riferitogli (da Storari, ndr), di valutarlo, di riflettere sul da farsi e di determinarsi conseguentemente. Le stesse differenti modalità di rapportarsi diversamente con i membri del Comitato di Presidenza appaiono indicative di una scelta ben ponderata e tutt’altro che casuale». Se, infatti, Davigo ha informato in maniera dettagliata l’allora vicepresidente David Ermini sui fatti e sul contenuto dei verbali, di cui gli lasciò anche copia, ben più vago è stato con il pg Giovanni Salvi e con il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. Oltretutto, i tre sono stati informati separatamente e mai Davigo avrebbe fatto cenno alle prerogative spettanti al Comitato di presidenza. Ma al di là di ciò, se davvero Davigo avesse voluto riportare la situazione sui binari della legalità, scrivono i giudici, «sarebbe stato sufficiente» indirizzare Storari alla procura generale presso la Corte di Appello di Milano «e, se tale strada nell’ottica personale del dottor Davigo non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente, che lui stesso avesse compulsato il Comitato di Presidenza nella sua collegialità, rimettendo a tale organo se e in che modo dovesse avvenire la formalizzazione della vicenda e i conseguenti comportamenti da adottare, sia per smuovere l’eventuale stallo all’indagine meneghina sia per tutelare i soggetti, che ne erano coinvolti, ivi compresa la figura del dottor Ardita. Viceversa l’imputato si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell’effetto finale di una fuga di notizie “senza eguali precedenti”, già stigmatizzata dall’Autorità giudiziaria umbra», a cui poi è passato il fascicolo sulla loggia per competenza.

I giudici evidenziano inoltre come Davigo abbia «effettivamente indotto il dottor Storari a rivelargli le propalazioni dell’avvocato Piero Amara» in ragione della prospettazione «tutt’altro che fondata» che il segreto investigativo non fosse opponibile non solo al Csm, ma anche al singolo consigliere. Tale affermazione, scrivono i giudici, si basa su «una forzatura interpretativa» delle circolari del Csm, che, «per quanto suggestiva, è da ritenersi erronea». Nemmeno il Csm, infatti, ha accesso incondizionato e immediato agli atti d’indagine: le procure possono omettere, opporsi o ritardare la trasmissione delle informative per esigenze investigative. E spetta al pm procedente consentire la trasmissione degli atti, cosa che nel caso specifico, data la coassegnazione, mancava, non essendoci il consenso del procuratore aggiunto Laura Pedio. Davigo, dunque, «non era in alcun modo autorizzato a ricevere atti e notizie coperti dal segreto investigativo». Ma anche a volersi richiamare alle circolari, la migrazione di atti coperti «giammai può avvenire attraverso quelle comunicazioni riservate e confidenziali, di cui tutti i testi hanno parlato, per come espressamente riportato nella sentenza impugnata».

Ma non solo: Davigo ha comunicato tali atti non solo a membri del Csm, ma anche alle sue segretarie, messe a conoscenza non solo della presunta loggia, ma anche dei presunti «meccanismi di condizionamento che questa avrebbe posto in essere per favorire la nomina di alcune cariche istituzionali di particolare rilievo, così da arrivare, addirittura, a convincersi che la mancata conferma del dottor Davigo nell’incarico di consigliere del Csm, al raggiungimento dell’età pensionabile, fosse stata determinata, giustappunto, dalla trame di detta associazione segreta». Senza dimenticare il fatto che l’ex pm aveva mostrato i verbali anche al senatore Nicola Morra e al collega di “corrente” Alessandro Pepe, entrambi estranei al Csm.

«A ciò si aggiunga - scrivono i giudici - che è la stessa cronistoria delle attività investigative sorte a seguito delle rivelazioni dell’avvocato Amara (...) a smentire l’assunto dell’appellante e a far ritenere che l’iscrizione nel registro degli indagati di Amara, Calafiore e Ferraro, sia stata decisa a prescindere dall’intervento del dottor Davigo presso il procuratore generale della Corte di Cassazione»: le indagini erano state avviate, infatti, prima che Salvi contattasse il procuratore di Milano Francesco Greco. L’intervento di “legalità”, dunque, non era servito a niente.