RESA DEI CONTI M5S

Le dichiarazioni di Luigi Di Maio sulla volontà grillina di disallineare il Paese da Europa e Nato sono «irrispettose», per il Consiglio nazionale 5S. E che la rabbia sia molto diffusa tra i pentastellati lo si capisce quando persino Fico sente il dovere di prendere posizione.

A IL CORSIVO

Secondo una vulgata di Palazzo, Giuseppe Conte non brilla per coraggio. Strilla, strilla, ma alla fine non ha mai la baldanza dello strappo. Un’attitudine, quella alla prudenza estrema, sviluppata dopo la lezione del Papeete e abbondantemente utilizzata durante il suo secondo governo.

Ma, dicevamo, di vulgata si tratta. Perché a ben guardare Conte è tutt’altro che un mite avvocato catapultato nel mondo della politica. E per rendersene conto è sufficiente riavvolgere il nastro di un solo anno, l’anno della scalata al Movimento 5 Stelle. Dopo essere stato disarcionato da Palazzo Chigi, infatti, l’ex premier, forte di un consenso popolare ancora alto, ha concentrato ogni sua energia nella ricostruzione di un partito rimasto senza guida. Un percorso accidentato, pieno zeppo di insidie e scogli da aggirare per plasmare un carrozzone lacerato da una guerra fra bande favorita da una “non organizzazione” capace di cristallizzare rendite di potere inamovibili: un pezzo a Beppe Grillo, un pezzo a Davide Casaleggio, un pezzo a Luigi Di Maio. Il tutto retto da un’infinità di non detti, non scritti e consuetudini che solo un profondo conoscitore della grammatica pentastellata avrebbe potuto comprendere. Insomma, governare quella macchina anarchica e autoritaria allo stesso tempo sarebbe stata impresa ardua per chiunque, figurarsi per un leader estraneo a quella storia e spuntato dal nulla.

Ma forse è stata proprio questa la forza di Conte, che invece di perdersi in indistricabili trattative barocche condotte col misurino dei contentini, è entrato come un panzer nella casa grillina spianando via vecchie liturgie e avversari interni. E nel giro di pochi mesi l’avvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui, Di Maio compreso, aveva fallito: rottamare l’intero “gruppo dirigente” pentastellato. Uno alla volta l’ex premier ha “licenziato” Casaleggio, figlio del cofondatore e dominus assoluto di Rousseau, ridimensionato a un ruolo poco più che onorario lo stesso Grillo, accompagnato alla porta Di Maio, il volto politico più noto e potente del Movimento dalla cui fantasia era nata l’idea di trasformare Conte in un presidente del Consiglio.

Difficile definire “prudenza” o “indecisione” questo modo di incedere. Nel giro di un anno il presidente grillino è stato in grado di realizzare quel sogno che Renzi nel Pd non è riuscito a portare a termine in un percorso durato oltre sei anni: esautorare la “ditta”. Senza la spocchia dello «stai sereno», del «Fassina chi?», del «ciaone», ma col passo felpato e brutale dell’avvocato con la pochette.

Il senatore di Rignano sull’Arno alla fine ha dovuto fondare un nuovo partito per avere una piccola arena senza avversari interni, Conte ha rifondato il suo. Forse entrambi saranno destinati all’irrilevanza politica ed elettorale. Ma di rottamatore vero, a conti fatti, ce n’è solo uno.