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«Il procedimento penale è e deve rimanere il luogo di accertamento di reati e di eventuali responsabilità penali e non può trasformarsi in un luogo di dibattito scientifico». L’inchiesta della procura di Bergamo sulle responsabilità politiche nella diffusione del Covid in Lombardia continua a far discutere. Non solo i virologi, scioccati dall’idea che si possa portare a processo chi ha tentato, praticamente al buio, di fermare il virus, ma anche gli avvocati, «esterefatti» dal fatto che a finire sul banco degli imputati siano la discrezionalità politica e la scienza. E anche dal fatto che, ancora una volta, il sistema delle garanzie è uscito stravolto dalla gestione mediatica dell’inchiesta, caratterizzata dalla “consegna” a mezzo stampa degli avvisi di garanzia.
A protestare è il Coordinamento distrettuale delle Camere penali della Lombardia Orientale e Occidentale, che in una nota manifesta tutto il suo disappunto. In primis perché il processo, da momento di accertamento dei fatti, sembra essersi trasformato in «momento di catarsi sociale e di riflessione collettiva». E ciò alla luce delle dichiarazioni del procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, secondo cui scopo dell’inchiesta è «soddisfare la sete di verità della popolazione». Parole che rischiano di attribuire al magistrato un ruolo che non ha, ovvero quello di «storico, di sociologo, di pedagogo che non le appartiene». Ma non solo: l’inchiesta rischia di intromettersi nelle scelte politiche, promuovendolo o bocciandole. «Non sono le aule di giustizia il luogo ove dibattere di queste scelte - ammoniscono i penalisti -, ma i luoghi della democrazia: le Aule del Parlamento e dei Consigli regionali».
Le Camere penali criticano però anche i riferimenti, da parte del procuratore, ai successivi gradi di giudizio, quasi superflui - questa la sensazione - a fronte di quanto emerso dalle indagini. Quasi come se la verità fosse «stata già accertata dalla pubblica accusa», così che ai giudici non rimane che «farla propria per ristabilire la giustizia su quell’immane tragedia che è stato il Covid nelle nostre terre e che, purtroppo, per arrivare alla punizione dei responsabili, il campo dovrà essere lasciato nelle mani degli avvocati la cui funzione, passa tra le righe del messaggio subliminale mediatico, sarà quella di opacizzare la cristallina verità per ingannare i giudicanti e ricavarne l’ennesima ingiusta assoluzione. Questo è totalmente inaccettabile», tuonano. Anche perché «al momento non esiste alcuna verità», ma un’ipotesi costruita senza contraddittorio, che dovrà essere vagliata da un giudice terzo. «Per il resto ci saranno gli storici - concludono i penalisti -. Il processo penale non è una caccia alle responsabilità per placare le disperate aspettative di giustizia delle persone e il processo penale è del tutto inadeguato rispetto a reati con vittime diffuse; non è incoraggiando le vittime a cercare pace nelle condanne esemplari, che si fa loro giustizia».
Il dibattito è, dunque, infuocato. E anche la scienza partecipa alle polemiche, puntando il dito contro chi «ragiona con il senno di poi». A commentare, mentre i giornali continuano a pubblicare chat e conversazioni dei giorni in cui l’Italia scoprì il Covid19, è Alessandro Vergallo, presidente nazionale dell'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani. «Non siamo sorpresi - spiega all’Adnkronos Salute -, ma l'inchiesta di Bergamo ci lascia abbastanza perplessi: si va a ragionare con il senno di poi passando al setaccio tutto ciò che è accaduto in quei giorni, difficili e complicati, senza tenere in alcun conto il contesto in cui in cui quegli avvenimenti sono accaduti. Siamo stati il primo Paese colpito e in maniera massiccia la Lombardia. Eravamo impreparati a tutti i livelli e gli ospedali, grazie al sacrificio di tutti gli operatori, hanno fatto da argine a costo di sacrifici notevoli». Più drastico Donato Greco, infettivologo e specialista di sanità pubblica, direttore della Prevenzione al ministero della Salute fino all'agosto 2008, che in un’intervista al Corriere della Sera definisce «senza fondamento» l’accusa per la mancata applicazione del piano pandemico del 2006. «Non parliamo di un manuale di istruzioni da tirar fuori al momento necessario - ha evidenziato -. Ma di un processo continuo di attività permanenti, anche di formazione, portato avanti di concerto con la comunità internazionale. Il gran numero di morti nella prima fase non è ancora oggi pienamente spiegabile. Non sarei in grado di dare stime. Ricordo che l'età mediana dei deceduti era intorno agli 80 anni e avevano patologie pregresse severe. Tutti abbiamo sottovalutato il fenomeno. Purtroppo la storia delle epidemie ci dice che ciò è avvenuto per tante altre emergenze, né ci consola il fatto che nessun Paese del mondo sia stato capace di arginare le ondate del Covid. Il Paese si è trovato del tutto impreparato alla pandemia».