Mentre Luigi Di Maio e Matteo Salvini proseguono senza sosta la loro guerra di botta e risposta al vetriolo, Giuseppe Conte prova a prendere la situazione in mano e annuncia: sul caso Siri «prenderò la mia decisione». Tradotto: il presidente del consiglio si assume tutta la responsabilità della scelta sul futuro politico del sottosegretario leghista ai Trasporti. Perché di stare a guardare mentre la sua maggioranza cade a pezzi Conte nonne ha intenzione. «Non sono mai stato un passacarte» , dice il premier all’indomani del consiglio dei ministri più tormentato dell’era del “cambiamento”. Ma sul sottosegretario indagato per corruzione, l’inquilino di Palazzo Chigi vuole decidere con giudizio, «tenendo conto del principio di innocenza a cui come giurista sono molto sensibile», sottolinea “l’avvocato del popolo”. «Tuttavia preciso che nel campo politica conta ed esiste anche un principio di etica pubblica», aggiunge Conte. «E l’etica pubblica impone anche di fare una valutazione a caldo, su quelle che sono le ipotesi accusatorie. Confrontarsi, verificarle, e se nel caso, non aspettare la sentenza che passi in giudicato. Chiaro?». Per ora il presidente del Consiglio non si sbilancia. E seppur convinto della legittimità della posizione pentastellata che vorrebbe Siri subito fuori dal governo - Conte marca la specificità della sua posizione: «In questo momento non sono né per le dimissioni, né contro e il sottosegretario ha tutto il diritto di non essere infangato, di non essere disonorato», precisa. La decisione finale arriverà al rientro dalla Cina, dove il premier è atteso dal 26 al 28 aprile. «Incontrerò Siri, lo guarderò negli occhi e poi ovviamente ci sarà una valutazione e chiederò a lui di condividere la decisione finale», argomenta il capo dell’esecutivo. «Ora non parlo perché non mi sembrerebbe corretto assumere una decisione, qualunque essa sia, senza aver parlato con il diretto interessato», insiste.

La decisione non sarà affatto semplice, visto che in ballo potrebbe non esserci solo il destino politico di un leghista al governo, ma l’intera alleanza tra M5S e Carroccio. E dopo il Cdm di martedì sera i pilastri dell’intesa hanno cominciato seriamente a scricchiolare. L’iniziale assenza di Di Maio e la stizzita reazione di Salvini che d’imperio impone lo stralcio del “Salva Roma” (o almeno di una parte del provvedimento) dal decreto crescita non hanno fatto altro che alimentare la diffidenza reciproca.

«Non accostate mai il mio nome e quello della Lega alla mafia. Chi parla di Lega deve sciacquarsi la bocca perché con la mafia non abbiamo nulla a che vedere», mette in chiaro il ministro dell’Interno, rispondendo piccato alle richieste di chiarimento arrivate il giorno precedente via Blog in merito all’inchiesta che vede indagato Armando Siri. «Conte non ha chiesto le dimissioni» del sottosegretario, aggiunge Salvini.

Il tono deciso dell’inquilino del Viminale non intimorisce il capo politico pentastellato, che replica secco: «Se la Lega non c’entra niente con queste accuse, dimostri la propria estraneità dai fatti allontanando Siri dal governo, perché altrimenti io comincio a preoccuparmi a vedere Salvini e la Lega difendere a spada tratta Armando Siri», dice Di Maio. «Io e Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme in questi primi mesi di governo. Abbiamo fondato questo esecutivo sul rapporto di fiducia che si è concretizzato tra noi nella firma di quel contratto di governo».

Quello stesso contratto che ogni giorno perde una pagina sotto il peso dei sospetti. Poi chiosa: «C’è una gran bella differenza tra garantismo e, diciamola così, paraculismo».

Ogni scusa è buona per azzuffarsi. E pazienza se farne le spese sono i cittadini. «La Lega soddisfatta. I debiti della Raggi non saranno pagati da tutti gli italiani ma restano in carico al sindaco», dichiara il vice premier leghista, per alimentare uno scontro ormai quotidiano con la sindaca grillina. Che a sua volta ribatte. «Salvini aveva una occasione per fare qualcosa di buono per gli italiani con il Salva Italia. Avrebbe cancellato 2 miliardi e mezzo di debiti a carico di tutti gli italiani». E come se il rapporto tra alleati non fosse già abbastanza teso, ci pensa Beppe Grillo a versare benzina sul fuoco, con una lettera indirizzata al Fatto quotidiano: «Uno che diventa ministro dell'Interno in Italia, regno della criminalità organizzata ma parla solo di immigrati, ovviamente ha paura delle vere sfide che il ruolo gli porta a competenza», scrive il comico, correndo il rischio di seppellire il governo con una risata.