Se non li puoi battere unisciti a loro. È un vecchio adagio. Vale anche per la giustizia rispetto alla comunicazione. Nello specifico, l’adagio può tradursi così: anziché subirlo, il processo mediatico bisogna governarlo. Sembra l’obiettivo, in fondo apprezzabile, individuato dalla Scuola superiore della magistratura e scelto come stella polare del prestigioso seminario ospitato oggi in Cassazione, nell’aula Giallombardo.

Un incontro al quale, con il presidente uscente della Scuola delle toghe Giorgio Lattanzi, sono intervenuti tra gli altri la “padrona di casa” Margherita Cassano, prima presidente della Suprema corte, il pg di Cassazione Luigi Salvato e il vertice del Cnf Francesco Greco, con il numero uno dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli a coordinare i lavori. In realtà la stella polare è già stata individuata, e affidata a un “manuale” edito da Giappichelli dal titolo identico a quello del seminario “Comunicazione e Giustizia”, in cui spiccano i capitoli curati da un altro relatore intervenuto a piazza Cavour, lo storico Federigo Bambi, dal consigliere segretario del Cnf Giovanna Ollà e dall’inedito ma efficacissimo tandem costituito da Edmondo Bruti Liberati e Raffaella Calandra.
Il “cammino” verso la “stella polare” è dunque tracciato, suggeriscono i relatori dell’incontro, a cominciare dal magistrato Gianluigi Pratola, componente della formazione decentrata che la Scuola delle toghe cura presso la Suprema corte. Un’idea, su tutte: la necessità, dichiarata da Cassano, che gli uffici giudiziari, a cominciare da piazza Cavour, «possano avvalersi del contributo di esperti della comunicazione». È l’obiettivo a cui guardano gli stessi Bruti Liberati (anche lui tra i relatori del seminario) e Calandra (coautrice del capitolo conclusivo del manuale in virtù della propria esperienza di cronista giudiziaria), seppur con una “tappa intermedia”: «Formare magistrati in grado di coadiuvare il capo dell’ufficio proprio nelle attività di comunicazione», come spiega l’ex capo dei pm milanesi.
Sembra strano, ma a fronte di una consapevolezza che sembra maturare nella magistratura, si fa fatica a immaginare un quadro valoriale di riferimento che possa essere condiviso con avvocatura e operatori dell’informazione.

A sollecitarlo è il presidente del Cnf Greco, che nel proprio intervento parte da un’osservazione: «Noi avvocati abbiamo regole chiare che riguardano anche la sobrietà nella comunicazione pubblica, e che confliggono con la tendenza di alcuni colleghi a cercare pubblicità nel racconto giornalistico dei processi in cui sono coinvolti. Tanto che forse sarebbe interessante ipotizzare una regola aurea per cui nella cronaca giudiziaria si evita di segnalare il nome del difensore e del pm, in modo da raffreddare le tensioni che attraversano l’informazione in questo campo». L’ipotesi in realtà è solo esemplare di quel «codice etico» che Greco, appunto, auspica sia «condiviso tra magistrati, giornalisti e avvocati: se non possiamo pretendere di arrivare a regole deontologiche comuni, possiamo però convergere su principi valoriali che ispirino tutti gli operatori del sistema giustizia».
È un’ipotesi che vede favorevole Bartoli, ma che i magistrati intervenuti all’incontro non vedono così vicina.

D’altra parte, Cassano, come Salvato, a propria volta autore di un discorso assai pragmatico, sono consapevoli dei limiti che oggi le toghe devono affrontare nel rapporto con la stampa. «Da presidente delle sezioni unite ho constatato il paradossale rovesciamento del messaggio, nelle cronache del giorno dopo, della sentenza sul saluto romano: noi abbiamo rafforzato le tutele, ma in virtù della lettura proposta dai media ci siamo trovati con le rimostranze della comunità ebraica». Da qui Cassano arriva ad auspicare appunto, con ammirevole senso del limite della magistratura, «degli esperti di comunicazione negli uffici giudiziari». Anche Salvato ritiene necessario «affidarsi ai professionisti dell’informazione, giacché è impensabile «confondere la motivazione, sola forma comunicativa a cui il giudice è vincolato, con una sorta di giustificazione delle decisione assunta: se un atto giudiziario andasse incontro alle aspettative dei social media, finiremmo per mettere a rischio le libertà fondamentali».
Idee chiare, anche se per la “Costituente della giustizia mediatica” a cui guarda Greco ci sarà da lavorare.

Ma intanto Bartoli è autore di un richiamo esemplare quando ricorda che «non è possibile continuare ad assistere a talk show che pretendono di offrire una parodia del processo: la giustizia si compie nelle aule dei tribunali, non in contesti gestiti da intrattenitori o, peggio, da imbonitori». Ed è imperdibile il decalogo per la buona comunicazione del magistrato che Bruti Liberati estrapola, dal manuale di Giappichelli, a beneficio delle centinaia di avvocati e magistrati collegati via “Teams”: spicca, tra gli altri, il condivisibile richiamo a «non dire ciò che non si vuole finisca poi sui giornali: la logica dell’off the record è sbagliatissima, perché se tu magistrato una cosa al giornalista la dici, quest’ultimo ha il diritto di pubblicarla».

C’è un’ampia retrospettiva sul modello francese, in cui sono stati i giornalisti a “formare” i giudici, e all’uso delle nuove conferenze stampa previste dalle norme sulla presunzione d’innocenza: «Vanno preparate bene: sono strumenti efficaci ma delicati. Certo migliori del microfono-gelato che costringe il procuratore a rispondere senza riflettere. La distanza fisica si traduce anche in qualche istante in più per ponderare la risposta». La grammatica c’è, ed è ben scritta, in attesa di una sintassi condivisa.