«Non ho detto che la sindrome borderline deriva dalle psicoterapie». Basterebbe questa frase per comprendere quanto quello di Claudio Foti rappresenti un caso da studiare. Perché ad affermarlo, nel corso del processo allo psicoterapeuta accusato di aver provocato volontariamente un disturbo borderline ad una giovane paziente, è stata la consulente dell’accusa, Rita Rossi. Una frase inserita dalla stessa pm nell’atto di impugnazione contro l’assoluzione pronunciata lo scorso giugno dalla Corte d’Appello di Bologna, nel tentativo di smontare la sentenza in Cassazione e rifare il processo. Il dato appare curioso, se si considera che è la stessa accusa a contestare a Foti il fatto di aver provocato tale disturbo nella sua paziente, instillando falsi ricordi.

Secondo la pm Valentina Salvi e il sostituto pg Massimiliano Rossi, Foti avrebbe “manipolato” la paziente, che «in un costante crescendo» avrebbe «mutato il proprio atteggiamento e le proprie emozioni verso il padre, tanto da arrivare a odiarlo e a ritenerlo il potenziale autore della presunta violenza da lei subita all’età di 4 anni». Se prima era considerata la causa di tale mutamento, dunque, ora la terapia diventa «concausa», dicono i magistrati citando la consulente dell’accusa: il vero problema sono i «falsi ricordi» instillati nella giovane.

I giudici d’appello avevano smontato la condanna sottolineando come la diagnosi effettuata dalla psicologa Rossi si sarebbe risolta «in una valutazione priva di riferimenti agli strumenti di indagine prescritti dal “Dsm 5”», ovvero la Bibbia degli specialisti del settore. Al contrario, la difesa aveva dimostrato come il “Disturbo borderline di personalità” si forma nei primi anni di vita e si manifesta nell’adolescenza e nell’età adulta, come attestato dalle prove scientifiche depositate dall’avvocato Luca Bauccio, che riconducono «l’eziopatogenesi a fattori legati all’età infantile, con riferimento ad ambienti familiari invalidanti, abusi sessuali o ipotesi di violenza assistita». Il che escluderebbe la psicoterapia o i presunti falsi ricordi dalle possibili cause o concause: i disturbi della giovane erano precedenti alle sedute di psicoterapia.

Sedute che il Dubbio ha avuto modo di visionare per intero: dai video non emerge alcuna opera di “convincimento” e la giovane inizia la terapia esprimendo autonomamente «odio» nei confronti del padre, figura al quale lo psicoterapeuta non attribuisce mai alcun abuso ai danni della figlia. Inoltre, è la stessa giovane, al termine della terapia, a dichiarare di stare meglio. «Prima comunque stavo sempre molto male su queste cose che mi sono successe - dice nel corso del penultimo incontro -. Adesso non lo sento più questo dolore, cioè c'è però non così tanto da pensare di uccidermi». Non esiste alcun documento, poi, in cui Foti riconduca le violenza al padre: sono stati i carabinieri, infatti, a riferire tale questione alla madre («mi è stato letto quando sono stata chiamata dai carabinieri che il padre abusava della figlia, davanti a me»).

Del rancore della giovane nei confronti del padre è stata la madre a parlare per prima, nel corso dell’incontro avuto con Foti prima dell’inizio della terapia. «Non c’è mai stato, “non mi ha creduto” - dice la donna riportando le parole della figlia in riferimento all’abuso subito -, lei è molto arrabbiata con suo padre. E anche questa è una cosa, secondo me, che la butta molto a terra, non esser creduta dal proprio genitore». Una circostanza poi negata dalla donna, che a sit ha dichiarato di non aver mai avuto contezza di problemi tra la figlia e il padre prima della psicoterapia. Un cambio di versione che riguarda anche l’uso di sostanze stupefacenti: mentre di fronte alla consulente del pm ha dichiarato che la giovane faceva uso di sostanze già a 15 anni, nel corso del processo ha postdatato il tutto al periodo successivo alla terapia, così come fatto dalla giovane.

L’accusa vuole anche ribaltare la sentenza nella parte che riguarda l’abuso d’ufficio, che, secondo la Corte, ci sarebbe stato, ma senza alcun coinvolgimento di Foti. Secondo la procura, sarebbe contraddittorio considerarlo «un mero beneficiario del sistema illecito, ideato dai pubblici ufficiali della Val d'Enza», rispetto al quale «non avrebbe fornito alcun contributo causale, limitandosi ad eseguire le prestazioni terapeutiche a lui commissionate». E ciò perché «da un lato si definisce fondamentale per l’esistenza del sistema illecito la fatturazione delle psicoterapie a soggetti fittiziamente interposti», mentre dall’altro «si afferma che lo stesso psicoterapeuta, che rendeva possibile l’esistenza stessa del sistema, emettendo fattura consapevolmente a tali soggetti interposti, non avrebbe compartecipato all’attività amministrativa ritenuta illegittima e dunque fornito alcun contributo causale».

Già dopo le motivazioni di appello Bauccio aveva sostenuto l’esistenza di delibere e documenti a dimostrazione dell’esistenza di un procedimento amministrativo sequenziato da più atti che, dunque, renderebbero gli incarichi legittimi. «È un turbinio di tesi e controtesi - commenta al Dubbio il legale -. Disturbo borderline, immutazione mentale, falsi ricordi, depressione, ansia, vengono evocati con troppa disinvoltura e disimpegno. La Corte d'appello ha rimproverato il ricorso approssimativo e disinvolto a categorie scientifiche che imponevano rigore, metodo e spiegazione causale. Sarebbe stata apprezzata una presa d'atto. Invece siamo al rilancio. Intanto l'imputato di nuovo sulla graticola, di nuovo sotto scacco. La consulenza che ha permesso l'incriminazione di Claudio Foti è priva dei requisiti elementari della consulenza forense. Perché non prenderne atto e lasciare alla sua vita l'imputato? - conclude - Affronteremo la Cassazione in serenità e siamo certi che l'anomalia di questo processo potrà risaltare ancora di più. La leggenda di Bibbiano è morta e non risorgerà».