La morte del giudice Loris D'Ambrosio, ex consigliere giuridico dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non può essere considerata come conseguenza della sua attività di servizio e quindi rientrare nella categoria tutelata delle “vittime del dovere”. È quanto ha affermato l'Ufficio studi del Consiglio superiore della magistratura a cui la Quarta commissione di Palazzo dei Marescialli, competente sullo status delle toghe, aveva chiesto un parere al riguardo.

Come raccontato ieri, i familiari del magistrato, stroncato a luglio del 2012 da un infarto all’età di 65 anni, avevano fatto istanza affinché il Csm ne riconoscesse il decesso in base alla legge 266 del 2005. La normativa, in particolare, definisce vittime del dovere i dipendenti pubblici deceduti o rimasti invalidi “in conseguenza di eventi verificatisi nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico, nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari, in operazioni di soccorso, in attività di tutela della pubblica incolumità, a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi necessariamente caratteristiche di ostilità”.

Una casistica quanto mai ampia in cui, però, non ha trovato spazio la morte di D'Ambrosio la cui domanda di riconoscimento è stata bocciata per “insussistenza dei presupposti” all’unanimità dalla Quarta Commissione del Csm che questa settimana ha fatto dunque proprio il parere dell'Ufficio studi.

Loris D'Ambrosio fu oggetto in quell'estate di attacchi e critiche violentissime dopo la pubblicazione del contenuto delle sue telefonate con l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, finite nel fascicolo della Procura di Palermo che indagava sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. «Una campagna violenta e irresponsabile di insinuazione e di escogitazioni ingiuriose di cui era stato pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità», scrisse Napolitano dopo aver annunciato «con profondo dolore e animo sconvolto» la morte del suo “prezioso” collaboratore, “impegnato in prima linea anche al fianco di Giovanni Falcone”.

Alla pubblicazione delle telefonate di D'Ambrosio erano poi seguite indiscrezioni su quelle intercettate tra Napolitano e Mancino, e che portarono l'allora capo dello Stato a sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale nei confronti della Procura di Palermo. Il riconoscimento di vittima del dovere avrebbe avuto importanti conseguenze, anche in termini economici, per i familiari.

Non può, comunque, non balzare all'occhio la tempistica con cui la pratica è stata evasa. L'istanza era stata presenta addirittura nel 2017, due consiliature fa, e per tutti questi anni era rimasta in sorta di limbo. «Decidono tutto i magistrati», ha affermato al Dubbio un ex consigliere laico che, per motivi di opportunità, ha chiesto la cortesia di rimanere anonimo.

La vicenda, infatti, è quanto mai scivolosa e vi è il sospetto che per non creare “problemi” agli ex colleghi di Loris D’Ambrosio qualche toga del Csm abbia deciso di tenere ferma la pratica per oltre un lustro. Riconoscere l’ex consigliere giuridico di Napolitano vittima del dovere avrebbe significato mettere in relazione la sua morte con l'azione della Procura di Palermo che era arrivata ad ascoltare anche le conversazioni del capo dello Stato. Una pagina poco commendevole per la magistratura palermitana la cui attività era poi stata supportata da una campagna mediatica senza precedenti.

Alquanto singolare, poi, che questa pratica venga messa in votazione pochi giorni dopo la morte di Napolitano. Ma il punto più sorprendente sarebbe però la decisione del Csm di tenere tutto secretato e di sottrarre gli atti alla pubblicità del Plenum, quando invece sarebbe stato opportuno diradare quanto più possibile le nebbie che a distanza di oltre dieci anni ancora si annidano su questa vicenda.

Quasi tutti i magistrati di Palermo che hanno condiviso quella stagione, va ricordato, hanno fatto carriera, conseguendo incarichi e nomine di prestigio. Il vice presidente del Csm Fabio Pinelli potrebbe, dunque, farsi parte attiva per una trasparenza dell’istruttoria, che contribuirebbe senza dubbio ad accrescere la fiducia nella magistratura, da tempo in caduta verticale.