È improbabile attribuire a un’udienza dinanzi alla Corte costituzionale la definizione di «processo». Ma un po’, forse, quella celebrata ieri mattina sul reato di aiuto al suicidio può reggere una simile etichetta. Non a proposito della norma sottoposta alla Consulta però, ossia l’articolo 580 del codice penale, e della camera di consiglio iniziata a fine udienza e aggiornata a stamattina. A essere “processato” a Palazzo della Consulta è stato, contumace, il legislatore: che, sul fine vita, «non ha fatto la sua parte», come ricorda ai giudici costituzionali Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e avvocato di Marco Cappato.

«Torniamo a discutere dell’aiuto al suicidio senza aver avuto una risposta dal Parlamento», incalza Gallo. Che concentra il suo intervento sulla mancata risposta data dalle Camere dopo l’invito della Corte costituzionale. Nell’ordinanza del 24 ottobre 2018 sulla questione di legittimità sollevata nel processo milanese a Cappato, a giudizio per aver accompagnato Fabiano Antoniani a finire i suoi giorni in Svizzera, il giudice delle leggi aveva reputato «doveroso» consentire al Parlamento ogni «opportuna riflessione e iniziativa» sul fine vita.

Ma «se è vero che vari ddl ci sono, è vero anche che tutte le iniziative legislative in materia si trovano a uno stadio preliminare», nota l’avvocata di Cappato, «questa dunque non è una base che giustifichi un rinvio della decisione» . La scelta che la Corte potrebbe comunicare già oggi non sembra oscillare insomma attorno alla costituzionalità del reato di aiuto al suicidio in casi estremi come quello in cui nel febbraio 2017 Cappato agevolò la fine di Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo.

Sulla punibilità di una simile condotta, l’ordinanza di 11 mesi fa si è di fatto già espressa: in casi simili, ha detto la Corte, «l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione».

Tutta la decisione e la camera di coniglio della Consulta ruotano piuttosto attorno al giudizio sul Parlamento. Da cui potrebbero conseguire due decisioni: dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 580, nei termini già prospettati, giacché si ritiene manifesta l’attuale incapacità del legislatore a provvedere; oppure accontentarsi di quello «stadio preliminare» a cui sono tuttora fermi i ddl in materia.

Lo stesso Cappato, prima ancora che i propri legali parlino in udienza, si augura che «al Parlamento sia consentito di svolgere il suo compito» ma non che «sia ostaggio dei giochini dei capi di partito». E persino l’avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri chiama implicitamente in causa il legislatore: chiede sì, come un anno fa, di «dichiarare inammissibili o inondate le questioni di legittimità dell’articolo 580». Ma ribadisce la necessità di «non elidere del tutto la possibilità di una disciplina generale in materia».

È infine il professor Vittorio Manes, che con Gallo compone il collegio difensivo di Cappato, a ricordare come «la Corte» già un anno fa abbia «parlato di vulnus chiaramente rilevante». E a voler utilizzare la precedente ordinanza per esercitarsi in una previsione, si potrebbe seguire la logica proposta lo scorso 13 settembre dal giudice civile del Tribunale di Roma Francesco Crisafulli, in un suo apprezzato intervento al convegno organizzato dalla Camera penale capitolina su “Aiuto al suicidio e rilievo costituzionale della dignità della morte”.

Il magistrato lesse quello che, a suo giudizio, «potrebbe essere il dispositivo della Corte». Eccolo: « La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, limitatamente all’ipotesi di aiuto al suicidio, nella parte in cui non consente che il giudice possa escludere la punibilità del fatto ove sia accertato che l’aiuto al suicidi è prestato in favore di persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli che, essendo affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze che trova assolutamente intollerabili, e dovendo essere mantenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, abbia inequivocabilmente manifestato la ferma volontà, debitamente informata, di porre fine alla propria vita in modo rapido e indolore». Crisafulli aggiunse: «Fossi un giudice penale, con un dispositivo così mi sentirei tranquillo». È un’ipotesi. Un mero esercizio, avvertì il giudice. Ma con buone chances di tradursi in realtà.