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CARLO NORDIO, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
La scelta era nell’aria: la linea del Pd sulla separazione delle carriere è, di fatto, di attacco totale a una riforma presentata come golpista. Manca solo il riferimento al fantasma di Licio Gelli, prontamente evocato però dal leader 5S Giuseppe Conte. Un’opzione chiara, netta, che questa mattina tutti i parlamentari dem avrebbero dovuto elaborare in un’assemblea congiunta, ma che alla fine è anticipata dal discorso con cui il capogruppo al Senato Francesco Boccia introduce i lavori: «È un intervento che rompe gli equilibri costituzionali tra i poteri».
Elly Schlein lo dirà poco dopo, a fine riunione, ai cronisti rimasti in attesa: «Questa destra vuole incidere sugli equilibri che la Costituzione mette a garanzia dei diritti dei cittadini?», si chiede retoricamente la segretaria. «È questo che dobbiamo mettere al centro», aggiunge la leader dem, «se un cittadino pensa che il giudice debba obbedire a chi governa, allora può votare a favore di questa riforma, se invece pensa che anche chi governa debba, come tutti, rispettare le leggi e la Costituzione, allora voterà no a questa riforma».
Sono argomentazioni da campana referendaria. Di critica incondizionata, e del tutto indifferenti al nodo dell’attuale Csm unico egemonizzato delle Procure, attraverso le correnti in cui i pm restano principali azionisti. Il Partito democratico sceglie, comprensibilmente, un’opposizione incondizionata, e si affida a un fantasma ricorrente: lo spettro della destra autoritaria che vuole spostare l’intero equilibrio istituzionale dal «bilanciamento di poteri e contropoteri», come dice ancora Boccia, alla «volontà di sottomettere il potere giudiziario a quello politico». Prospettiva inesistente, nella separazione delle carriere disegnata da Carlo Nordio, ma tuttora centrale nella piattaforma comunicativa dell’Anm, verso cui il Pd converge.
Il summit dei parlamentari dem si celebra poche ore prima che a Palazzo Madama inizi l’esame d’aula sulle carriere separate, quarta e ultima lettura parlamentare nello schema previsto, per le modifiche costituzionali, dall’articolo 138 della Carta. C’è un concentrato di eventi, che in teoria richiederebbe pure una certa solennità. Ma al Nazareno comprendono perfettamente che bisogna scegliere ora come regolarsi. Sia nel senso di dover stabilire il grado d’intensità della campagna per il No al referendum confermativo, sia perché bisogna individuare con cura il contenuto del messaggio da trasferire agli elettori.
E nelle discussioni ai vertici, nel confronto preliminare fra Schlein e la prima linea del partito sulla Giustizia, a cominciare dalla responsabile di settore Debora Serracchiani, c’erano due strade: puntare sulle critiche al merito della riforma costituzionale o a un appello per un voto anti-Meloni. Ha prevalso, come si vede, una terza via: un cannoneggiamento sulle intenzioni nascoste della legge Nordio, con l’allusione a un disegno complessivo sostanzialmente golpista ispirato dalla premier.
Basta ascoltare la requisitoria durissima di Boccia nell’assemblea dei gruppi: «Raccontano di voler sistemare la giustizia ma picconano la nostra Carta. Abbiamo anche contestato il metodo: non è mai successo che una riforma costituzionale non abbia visto una sola modifica parlamentare. Ci siano trovati davanti alla dittatura della maggioranza».
Ma soprattutto: «La verità è che l’attacco alla magistratura è un pezzo del disegno di accentramento del potere nelle mani dell’Esecutivo. La riforma non nasce da un’esigenza funzionale di miglioramento della giustizia ma da una volontà di sottomettere il potere giudiziario a quello politico. E l’idea che ‘deciderà il popolo con il referendum’ sostituisce la mediazione parlamentare con l’appello diretto all’elettorato: una visione plebiscitaria della democrazia che esclude la funzione di garanzia del Legislativo e delle minoranze».
Si tratta di una critica fragile, perché non c’è scritto da nessuna parte che vi sia un disegno autoritario, nell’impedire ai pm di controllare le carriere di coloro, i giudici, di fronte ai quali gli stessi pm dovrebbero essere solo una parte, al pari degli avvocati. Ma la suggestione individuata da Schlein, Boccia e dalla maggioranza dem è molto intonata con la strisciante, continua allusione al pericolo fascista della destra al governo. Di fatto è un appello anti-Meloni, e potrebbe funzionare, almeno per lo zoccolo duro dell’elettorato di centrosinistra. Resta da vedere se e quanto un anatema del genere possa attrarre verso il No alla riforma segmenti più moderati dell’opinione pubblica.
Boccia parla di «vie convergenti» verso la forzatura accentratrice: «Da una parte il rafforzamento dello Stato punitivo, vedi i decreti Sicurezza, il controllo e la repressione, e dall’altra l’indebolimento dello Stato di garanzia, e cioè della giustizia, della Presidenza della Repubblica, delle autonomie. Il risultato è lo stesso: pieni poteri nelle mani del capo, eletto direttamente, che si rivolge al popolo scavalcando ogni contrappeso istituzionale. È la trasformazione del Capo del governo in Capo dello Stato di fatto». Un discorso in cui è del tutto ignorata l’idea processuale delle garanzie, legata appunto alla parità fra le parti, accusa e difesa, di fronte a una giudice che diventi “terzo” anche dal punto di vista ordinamentale.
È una legittima scelta politica. Che lascia perplessi i settori più riformisti del Pd: da Claudia Mancina, Enrico Morando e Stefano Ceccanti di “Libertà eguale” a Goffredo Bettini. Ma il dissenso interno fatica a emergere. C’è spazio solo per la sfumatura di Andrea Orlando, più centrata sul merito della riforma. L’ex ministro della Giustizia evidentemente coglie l’eccessivo politicismo dell’allarme di Schlein e Boccia: in un video diffuso sui social, Orlando si concentra piuttosto su «un rischio forte: avere un corpo di pubblici ministeri, non incluso nella giurisdizione, che compete o si integra con la polizia giudiziaria, e che acuisce così il carattere poliziesco dell’attività delle Procure».
Si tratta dell’unica obiezione scientifica plausibile che la stessa accademia abbia avanzato finora: «Se la carriera viene a essere costruita esclusivamente sulla base della capacità di saper innescare un procedimento», dice Orlando, «la competizione sarà a chi innesca più procedimenti. Se gli “invasati”, che in questi anni ci sono stati, sono stati contenuti dentro un autogoverno che mescolava le funzioni, adesso svolgeranno un ruolo di leadership all’interno di un corpo separato che rischia di essere un plotone d’esecuzione».
È d’altra parte un discorso scivoloso, in termini di propaganda, giacché va in una direzione opposta alla linea Schlein: per l’ex guardasigilli del Pd, il potere delle Procure casomai si rafforzerà, anziché essere riassorbito dall’Esecutivo. «La nascita di un Csm dei pubblici ministeri che sarà portato a giudicare prevalentemente sull’elemento mediatico porterà in una direzione che acuisce il rischio di errori giudiziari». Discorso agli antipodi dell’anatema sulla riforma golpista, e che non potrà dunque essere il mantra della campagna dem contro le carriere separate.


