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La premier Giorgia Meloni
Che fare? Se Giorgia Meloni lo ha già deciso, come è probabile, ancora non ha trasformato la propensione in fatti e parole. Le quali certo contano e pesano. Lunghi giorni di silenzio hanno moltiplicato le attese: quando la premier si deciderà a parlare in prima persona, senza lo schermo di anonime “fonti”, le sue parole saranno pesate col bilancino, ogni virgola finirà per incidere sulla scelta tra tregua o guerra nell'eterno scontro fra politica e magistratura.
Certo, le dichiarazioni hanno tutto il loro peso. Però i fatti ne hanno di più e alla fine tutto dipenderà da un solo “fatto”, l'accelerazione o meno della legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Forzare ora, significherebbe rendere inevitabile una battaglia in campo aperto, frenare sarebbe invece l'autostrada per la tregua. Una tregua che sarebbe costellata di piccole violazioni, scaramucce, anche di veri scontri significativi come quello in corso sull'abolizione dell'abuso d'ufficio. Ma in ogni caso qualcosa di molto diverso da una guerra totale.
La magistratura, nonostante il fragore d'obbligo di alcune dichiarazioni, cerca di spingere in questa direzione. Il segretario dell'Anm Casciaro, ieri, ha negato con sdegno l'accusa di «fare politica con l'opposizione» rivolta dalle “fonti” di Chigi a una parte della magistratura, ma nel farlo ho trovato modo di dire più forte e più chiaro di quanto solitamente accada che «spetta solo alle forze politiche legittimare dal consenso popolare decidere quali siano le riforme più appropriate». È un riconoscimento ovvio sul piano costituzionale, molto meno su quello politico: basti ricordare la reazione del potere togato ad altre leggi pur a loro volta decise da partiti legittimati dal voto popolare a decidere. Dietro i toni necessariamente bellicosi, è un'offerta se non di pace certo di tregua.
Tutto lascia pensare che il governo, o almeno chi lo guida, sia dello stesso avviso. La separazione delle carriere non è obiettivo al quale si possa ufficialmente rinunciare: continuerà a essere confermata come obiettivo principe della riforma della giustizia. In compenso lo si può indirizzare su un binario morto ed è precisamente quello che si sta verificando. Da giorni gli esponenti soprattutto di FdI ripetono che la separazione arriverà, ma solo come ultima tappa della riforma. Al ministero non è stato mosso un dito per avviare la parte più importante del programma della destra in materia di giustizia e anche negli ultimi tempestosi giorni non è stato accelerati nulla.
La giustificazione della tempistica è interessante: trattandosi di riforma costituzionale, a differenza di tutte le altre voci in programma sulla giustizia, conviene farla a fine legislatura. Logica suggerirebbe conclusioni opposte: trattando di una legge che richiederà un paio d'anni per essere varata converrebbe partire subito, come del resto la presidente ha deciso di fare per l'altra riforma costituzionale nel paniere, quella a cui tiene davvero, il premierato. Inoltre non si capisce bene perché per la maggioranza sarebbe conveniente piazzare una riforma destinata a incendiare il dibattito e a spaccare il Paese proprio a ridosso delle elezioni, invece che con un anticipo largo abbastanza da permettere all'opinione pubblica di digerire una riforma che sarebbe comunque traumatica.
Il rinvio dice in realtà una cosa chiara: che per ora il governo non ha alcuna intenzione di fare il solo passo che nello scontro con la magistratura sarebbe senza ritorno. La riforma della discordia sarà tenuta in sospeso: preziosa come strumento di minaccia e ricatto, sempre pronta a essere messa in campo se la premier riterrà, a torto o a ragione, di avere a che fare con una magistratura decisa a farla cadere, ma altrimenti destinata a restare nel congelatore fino a che non sarà troppo tardi per tirarla fuori dalla ghiacciaia. È vero che Fi potrebbe insistere, essendo quello il bastione che spettava agli azzurri nella ripartizione degli obiettivi della vigilia, ma è anche vero che a tenerci era soprattutto il gran capo, nel frattempo venuto meno.
Una volta messa da parte la sola vera partita che la magistratura consideri questione di vita o di morte abbassare i toni non sarà difficile. Lo scontro proseguirà perché il potere togato è in realtà furioso per l'abolizione dell'abuso di ufficio e le altre misure in questo momento al vaglio del Quirinale, ma basterà che la politica, per bocca della premier, riconosca al potere togato le sue prerogative, come ieri l'Anm ha fatto con quelle della politica, per riprendere le redini di una situazione che negli ultimi giorni ha rischiato di sfuggire invece a ogni controllo.