Dopo l’approvazione nottetempo in commissione Giustizia, sono 170 i sì con i quali la Camera ha approvato l’art. 1 del ddl Nordio e, conseguentemente, abolito l’art. 323 del codice penale, rendendo definitiva l’azione più divisiva contenuta dal disegno di legge presentata dal Guardasigilli. Tra le principali contestazione mosse vi era chi sostiene come la cancellazione del reato fosse in contrasto con le norme europee sull’anticorruzione, le quali prevedono la permanenza di questo reato. 

Poco più di un anno fa la Commissione europea ha presentato un nuovo progetto di direttiva anticorruzione che prevede espressamente la conservazione di una fattispecie di reato per punire l’esecuzione o l’omissione di un atto, da parte di un funzionario pubblico, quando ne ha conseguentemente ottenuto un indebito vantaggio. Il ministro Nordio ha però annunciato, alla riunione dei ministri della Giustizia Ue, di aver trovato una mediazione, riconoscendo che l’Italia dispone di un ampio arsenale di strumenti in grado di contrastare in maniera efficace i reati contro la pubblica amministrazione.

I più incalliti oppositori però non si arrendono e sostengono che trattandosi di un reato contro i cosiddetti “colletti bianchi” la sua abrogazione renderà, d’ora in avanti, leciti comportamenti il cui disvalore sociale è chiaro; secondo alcuni, si tratta di un delitto “spia”, le cui indagini spesso conducono a scoprire violazioni più gravi. Tesi, queste, sconfessate a più riprese dallo stesso Nordio. Il reato – nonostante abbia subito una riscrittura nel 2020, sotto la direzione del Governo Conte II, il quale già aveva asciugato in maniera significativa l’area della rilevanza penale – aveva una condotta mal definita, riducendosi il più delle volte a una valenza esclusivamente mediatica che, spesso, danneggiava esclusivamente gli amministratori, soprattutto quelli locali.

Non vi sono parole più nitide, in questo senso, di quelle pronunciate appena due anni fa dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022, per la quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”); si è infatti ben messo in luce che «il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario a imboccare la via per sé più rassicurante», con inevitabili «riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati».

È ben inteso che alcun presidio di sicurezza viene sottratto ai cittadini con l’abrogazione del delitto succitato: per converso, godrebbero degli strumenti di cui al diritto amministrativo per sollevare potenziali storture degli atti dell’amministrazione, considerati illegittimi. Già in precedenza la ridotta sfera d’applicabilità dell’abuso d’ufficio portava la conseguente maggiore ampiezza dell’eccesso di potere, così come vizio dell’azione amministrativa.

La necessità di intervenire in modo incisivo sul reato d’abuso d’ufficio era ampiamente sostenuta anche dai dati statistici raccolti dal ministero della Giustizia: nell’anno 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio gip/gup, le archiviazioni sono state 4.613 (di cui 148 per prescrizione); quanto alle sentenze di condanna, ne sono state pronunciate 9, con 35 patteggiamenti, mentre sono stati 370 i decreti che hanno disposto il giudizio. All’esito del dibattimento, poi, su 513 procedimenti definiti le condanne sono state 18 (a fronte di 37 nel 2020 e di 54 nel 2019) e le assoluzioni 256. Numeri, questi, testimoni che la fattispecie dell’art. 323 era fallace ed inefficace ed è per queste ragioni che l’abrogazione trova la sua giustificazione nel riconoscimento dell’inutilità dell’attività investigativa svolta, alla luce degli esiti processuali avviati per questo reato.

Allora quello che mancava era il coraggio di attuare una vera riforma, aderente alla filosofia di concepire la giustizia penale quale diretta ed immediata, nella consapevolezza che la lotta alla corruzione è già vigilata dal sistema multilivello varato con la L. 190/ 2012, voluta da altro ministro riformista e lungimirante quale è stata la prof.ssa Severino.

Non resta che concludere in adesione alle parole del prof. T. Padovani, in un suo brillante lavoro del 2020 proprio sulla “Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio”, per il quale «in questa palude infetta, il rischio di essere contaminato da una denuncia incombe anche sul più scrupoloso ed onesto degli amministratori pubblici, proprio perché la sua attività si svolge in una dimensione precaria, labile, fumosa, dove ogni scelta, ogni decisione può essere contestata e censurata». Solo la certezza del diritto può evitare «rinnovato Lamento di Federico, la solita storia del pastore…/ Il povero ragazzo voleva raccontarla/ E s’addormì».