Ma come mai tutto questo improvviso interesse per la scrittura giuridica? Diciamo intanto che non sarebbe corretto parlare di un interesse “improvviso”: linguaggio e scrittura giuridica sono al centro dell’attenzione delle istituzioni che curano la formazione forense da lungo tempo; proprio la Scuola Superiore dell’Avvocatura, già negli anni in cui era condotta da Alarico Mariani Marini, pose le basi per quello che è un vero e proprio movimento culturale, i cui frutti si sono già letti anche nella normativa per l’accesso alla professione.

Non è infatti forse vero che già nella legge ordinamentale del 2012, all’art.43, e poi nel D.M. 17/2018 sulla disciplina dei corsi di formazione (che ne costituisce l’applicazione) si legge che tra le materie previste vi sono “tecnica di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità e dei pareri stragiudiziali nelle varie materie del diritto sostanziale e processuale” e “teoria e pratica del linguaggio giuridico; argomentazione forense” ? E quanti incontri si svolgono sul territorio, da anni su questi temi, a cura di istituzioni e associazioni forensi.

Non minore interesse manifesta la magistratura, attraverso la sua Scuola Superiore e le strutture decentrate, come dimostra tra l’altro la recentissima pubblicazione della Guida alla scrittura dei provvedimenti giudiziari civili.

È che la riforma Cartabia, e in particolare la sua attuazione, ha posto a tutti gli avvocati con forza la questione della scrittura degli atti nel processo civile, dopo che già in quello amministrativo alcuni nodi erano venuti in discussione: uno per tutti quello dei limiti dimensionali degli atti.

La prima reazione della categoria al D.M. 110/2023, di applicazione dell’art.46 disp.att. c.p.c. del D.lgs.49/2022 attuativo della riforma, col suo “carico” di prescrizioni (sui limiti, sulla forma, sulle conseguenze delle violazioni) è stata quella di… strapparsi i capelli; ma a una verifica più attenta è apparso trattarsi di un “Dramma inconsistente” (se mi si consente l’autocitazione) o, come ben più autorevolmente ha scritto proprio in questi giorni Giorgio Costantino, semplicemente “Le preoccupazioni ed i timori manifestati nei confronti delle… disposizioni si sono rivelati privi di fondamento”.

Una simile impostazione – tendere cioè a vedere le novità normative nel processo civile come una opportunità, e non come una punizione per l’avvocatura (e invero anche per la magistratura, giacché quelle indicazioni sono rivolte anche ad essa, pur “in quanto compatibili”) mi pare la preferibile, per tutti noi giuristi pratici.

È opportuno chiarire anche un altro punto. La tendenza verso una maggiore chiarezza e sinteticità degli atti del processo non è una deriva di atteggiamenti filo anglosassoni, o un inevitabile riflesso del condizionamento che ordinamenti “forti” sul piano economico tendono a esercitare, anche su un piano normativo e sociale, su ordinamenti più deboli. È senz’altro vero che da molti anni le stesse intese tra avvocatura e magistratura (come il Protocollo del 2015 per i ricorsi in Cassazione tra la Suprema Corte e il Cnf, poi rinnovato nel 2023) hanno tenuto conto delle indicazioni delle Corti sovranazionali europee; ed è vero anche che quelle Corti hanno una chiara impostazione anglosassone, dove a sua volta è molto presente l’esperienza nordamericana (una civiltà giuridica decisamente più pragmatica della nostra).

Ma chi è che ha scritto queste parole: “Ora si dica della narratio che contiene l'esposizione della causa. Deve quindi avere tre cose: che sia breve, che sia chiara, che sia probabile... Perché spesso la questione è poco compresa a causa della lunghezza piuttosto che dall'oscurità della narrazione. E bisogna usare anche parole chiare (verbis quoque dilucidis)”? Cicerone, naturalmente, nel De inventione. E non è nella Retorica di Aristotele che si legge: “Per quanto riguarda lo stile, uno dei suoi pregi principali può essere definito come la perspicuità. Ciò è dimostrato dal fatto che il discorso, se non rende chiaro il significato, non svolgerà la sua funzione propria”.

Nessuna sudditanza a influssi esterni, quindi, ma una orgogliosa rivendicazione della tradizione classica, semmai rinverdita alla luce degli studi della nuova retorica novecentesca.

Un’ultima, ma non meno rilevante, nota a proposito delle novità processuali civilistiche. L’attenzione alla “forma” degli atti (volendo così sintetizzare, impropriamente, il complesso delle novità) aveva avuto un primo e assai più drastico riflesso nel processo amministrativo; come noto, in quella sede davvero si potrebbero avere e si sono avute perplessità, anche di ordine di compatibilità costituzionale, per norme che pur possono incidere sul diritto di difesa che da un lato sono emanate da un’ autorità amministrativa (il Presidente del Consiglio di Stato), e che d’altro lato, per gli effetti, giungono alla ben nota previsione dell’art.13 ter disp.att. c.p.a. secondo la quale “Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”.

Niente di tutto questo nel D.M.110: il giudice non ha alcuna possibilità di intervento se non condivide le giustificazioni che il legale può offrire per una deroga ai limiti (cfr. c.6 art.46 disp. att. c.p.c., in aderenza al criterio direttivo della legge delega n.206/2021, art.1, c.17 lett.e), se non nel valutare il pregio delle difese ai fini delle spese (come del resto è previsto nel D.M. 55/2014, all’art.4); il penultimo comma dell’art.46 disp. att. c.p.c. è ben chiaro nell’escludere qualsiasi ipotesi di inammissibilità o improcedibilità.

Considerando inoltre le numerose esclusioni dal computo dei caratteri, e i casi nei quali è lo stesso D.M. ad escludere l’applicazione dei limiti, si potrebbe maliziosamente osservare, come ho già fatto altrove, che forse dovrebbe essere l’avvocato incapace di contenere un suo atto in una cinquantina di pagine (così di fatto, tutto incluso) a farsi qualche domanda... Restando in ogni caso tranquillo sul fatto che tutto che ciò scrive sarà esaminato dal giudice e potrà rilevare ai fini di una impugnazione.

La verità è che maggiore sintesi, maggiore chiarezza, significano semplicemente maggior impegno e maggiore applicazione del professionista: di questo si può star certi.