Gli esperti la chiamano “Forgotten baby syndrome”, vale a dire il comportamento dell’adulto, il più delle volte il genitore, che dimentica un neonato o un bambino piccolo nell’auto chiusa a chiave. Gli esiti possono essere tragici, come avvenuto pochi giorni fa a Roma, dove una bambina di 14 mesi è morta dopo essere stata dimenticata in auto dal padre, recatosi al lavoro.

In tanti, secondo i meccanismi atroci della gogna mediatica, si sono affrettati a puntare l’indice verso il padre della piccola Stella. Ma cosa rischia da un punto di vista processuale il giovane genitore? «Prima di tutto – spiega l’avvocato Guido Stampanoni Bassi, direttore della rivista Giurisprudenza penale – il padre della bambina si troverà a dover affrontare un’indagine ed eventualmente un processo. Potrebbero venire in rilievo sia la fattispecie di abbandono di minori, ai sensi dell’articolo 591 del Codice penale, sia quella di omicidio colposo (articolo 589 c.p.), anche se la giurisprudenza ha ritenuto corretta, in casi simili, la qualificazione nei termini dell’omicidio colposo ogni qualvolta il genitore fosse in grado di prevedere che dalla sua condotta negligente potesse derivare un evento dannoso per il minore».

Negli anni l’orientamento della Cassazione si è consolidato. «È opportuno – afferma Stampanoni Bassi – ricordare una sentenza della Suprema Corte del 2008, scritta da un illustre magistrato, Carlo Brusco, nella quale, nel confermare la condanna per omicidio colposo nei confronti di una madre che non aveva tenuto d’occhio il figlio di tre anni, annegato nella piscina di un hotel, si legge: “Per quanto possa essere sgradevole affermarlo in una vicenda che ha già così duramente colpito i familiari del bambino, la madre, titolare di una posizione di garanzia per la protezione del figlio, avendo violato per negligenza i suoi obblighi di vigilanza sui movimenti del minore, era in grado di prevedere che da questa condotta negligente potesse derivare un evento dannoso ed in particolare che, lasciato solo, il bambino potesse cadere nella piscina o entrarvi per il bagno senza essere adeguatamente protetto”».

Nella tragedia di Roma si intrecciano i temi della pena naturale e della sofferenza provocata dal reato. Anche in vicende del genere il diritto si adegua ed evolve. «Il tema delle cosiddette pene naturali – evidenzia il direttore di Giurisprudenza penale - è molto calzante in casi come questi. Come è noto, si tratta di tutte quelle situazioni di sofferenza, di diversa natura, che sono conseguenza di proprie condotte colpose commesse a danno di prossimi congiunti. Casi, cioè, in cui l’autore del reato ne è al tempo stesso vittima, esattamente come il padre di questa tragica vicenda. Il nostro ordinamento non conosce ipotesi del genere, anche se la Commissione presieduta dal professor Pagliaro nel 1991 aveva proposto di introdurre un istituto analogo, che non venne però mai approvato».

Il Tribunale di Firenze (si veda Il Dubbio del 18 aprile scorso) ha affrontato un caso che, sotto certi aspetti, presenta alcuni punti di contatto con quanto accaduto a Roma la scorsa settimana. Si tratta della morte di un giovane manovale che lavorava alle dipendenze dello zio. La giustizia ha mostrato tratti di umanità, ma non tutto è deciso. «Qualche mese fa – spiega Stampanoni Bassi -, il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 529 del Codice di procedura penale, nella parte in cui, per i procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità che venga emessa sentenza di non doversi procedere, qualora l'agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso. A prescindere da quale potrà essere l’esito di fronte alla Corte costituzionale - personalmente temo che la questione difficilmente possa essere accolta -, ritengo il provvedimento molto interessante».

La tragedia di Roma ha aperto un dibattito tra i penalisti. È stato richiamato il paragrafo 60 del Codice penale tedesco. Non è escluso che in futuro il legislatore italiano possa ispirarsi ad alcuni orientamenti stranieri. «Tra le argomentazioni del Tribunale di Firenze – conclude Stampanoni Bassi -, ve ne è anche una comparatistica, che poggia sulla esistenza, in altri ordinamenti giuridici, di istituti analoghi a quelli in esame. Il caso più noto è proprio quello dell’ordinamento tedesco, il cui paragrafo 60 prevede che il giudice si possa astenere dall’infliggere una pena, che non superi un anno di detenzione, se le conseguenze del fatto che hanno già colpito l’autore sono così gravi che la pena risulterebbe manifestamente sproporzionata. Una formulazione, dunque, simile a quella che la Commissione Pagliaro, nel 1991, aveva proposto di introdurre. Nell’ordinanza del Tribunale di Firenze si riportano poi altri esempi, tra i quali quello dell’ordinamento svedese, il cui codice prevede che il giudice, in casi specifici, possa annunciare la remissione della sanzione qualora l’applicazione della stessa risulti “chiaramente irragionevole”. Il tema è molto delicato, perché si potrebbe obiettare che non esistono né potrebbero esistere criteri per quantificare il grado di sofferenza provato dall’autore del reato».