Due posizioni diverse, entrambe contro la gogna mediatica, ma diametralmente opposte. Al processo “Angeli e Demoni”, sul presunto sistema di affidi illeciti di minori nella Val d'Enza, a tenere banco è stata la richiesta al collegio di trasmettere in “diretta” video le udienze. Richiesta alla quale le difese dei due principali imputati - gli assistenti sociali Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli - hanno risposto in modo completamente diverso, nella convinzione, nel primo caso, che mostrare all’opinione pubblica le prove sia un modo per ripristinare il corretto racconto dei fatti e nel secondo che le telecamere non possano far altro che rappresentare un’ulteriore spettacolarizzazione di una vicenda diventata ormai simbolo della violazione della presunzione di innocenza.

Il collegio, alla fine, ha ritenuto di escludere le riprese del dibattimento, puntando proprio sul clamore mediatico suscitato dall’inchiesta, che per mesi ha tenuto banco sui giornali diventando anche il tema principale di un’intera campagna elettorale. Da qui la scelta di chiudere le porte alle telecamere, per evitare un potenziale pregiudizio alle testimonianze e che i testi possano essere esposti ad attacchi e giudizi del pubblico. Un rischio concreto, come dimostrano i casi di minacce ai danni di assistenti sociali e imputati e le clamorose parole del gip che all’epoca revocò le misure cautelari per i due imputati: «Proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», scriveva il giudice, il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». La stampa potrà ovviamente seguire il processo e fare foto in aula - ad esclusione dei soggetti che neghino il consenso -, ma le riprese saranno consentite solo nel corso delle udienze precedenti all’apertura del dibattimento.

La posizione di Mazza e Ognibene

A difendere Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza, alla quale la procura contesta 64 capi d’imputazione sui 108 totali, sono il professore Oliviero Mazza e Rossella Ognibene. Che ieri hanno espresso la convinzione che sia necessario trasformare il Tribunale di Reggio Emilia in una “casa di vetro”, per ripulire dal fango, dopo anni di strumentalizzazioni, l’immagine della propria assistita, dipinta come un mostro sui giornali senza possibilità di contraddittorio. Il processo, infatti, è stato già celebrato sulla stampa, che nell’annunciare la prima udienza, lo scorso 8 giugno, annunciava con certezza l’apertura del processo ai “ladri” di bambini.

Un’intollerabile violazione della presunzione di innocenza, ma anche un giudizio inappellabile, che la difesa intende smontare con i fatti. Secondo Mazza, infatti, «la gogna mediatica c’è già stata ed è stata inesorabile - spiega al Dubbio -. Trasmettere il processo in video significherebbe fare un’operazione verità e quindi riabilitare la nostra assistita attraverso la conoscenza dei fatti, non più mediata dall’accusa ma direttamente dal contraddittorio dibattimentale. Ciò non sarà possibile: le telecamere dovranno rimanere fuori. Certo, ci saranno i giornalisti, ma i giornali si sono dimostrati, nella maggioranza dei casi, già schierati». Mazza ricorda infatti che «la stampa è il medium e il medium è un tramite. Sarebbe stato meglio che ciascuno potesse farsi un’opinione seguendo il processo».

Anche perché nel racconto del caso “Bibbiano” - definizione che rappresenta un’altra strumentalizzazione della vicenda, con l’inutile demonizzazione di un’intera cittadina - ci sono stati due filtri: «Quello a monte, che è la procura, e quello a valle, che è la stampa, che ha dato voce solo alla versione dei fatti fornita dagli inquirenti. Invece credo che una conoscenza diretta delle prove vere, quelle dibattimentali e non quelle di indagine, sarebbe stata opportuna - sottolinea Mazza -. Evidentemente il Tribunale non la pensa così». Se una limitazione doveva esserci, aggiunge il legale, la ragione stava altrove: ovvero nella presenza, nel processo, di minori, che di fatto vanno tutelati, anche a scapito del diritto di cronaca. Questa ordinanza, invece, «vuole preservare la verginità conoscitiva dei testimoni. Ma se queste sono le ragioni - conclude Mazza - viene di fatto abrogato l’articolo 147 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, perché in tutti i processi si ravvisa questa esigenza».

L’obiezione di Canestrini

L’assistente sociale Monopoli, invece, è assistito dall’avvocato Nicola Canestrini, che sulla questione ha una posizione completamente diversa. «La pubblicità del processo è un tratto distintivo di ogni Stato di diritto e quindi va celebrato indubbiamente a porte aperte. Ma quando diventa spettacolarizzazione e quindi nuoce alla genuinità dello svolgimento dibattimentale pone un problema - spiega al Dubbio -. Per questo mi sono opposto alle riprese. La pubblicità del processo non serve a soddisfare i pruriti del pubblico o di qualche giornalista, ma serve per avere garanzia di trasparenza».

Ma quali sono le conseguenze per gli altri processi? La posizione di Canestrini è netta: «Vedere al tg, magari all’ora di cena, spezzoni, magari emotivamente molto forti o di impatto, di un processo in corso influenza il processo stesso. Mi sta bene che le riprese vengano trasmesse a processo finito e anzi sono d’accordo a raccogliere le immagini del dibattimento in un documentario - aggiunge -, ma credo che il real time vada escluso da tutti i processi». Diverso, secondo il legale, il discorso per la radio, data la minore capacità suggestiva ed evocativa rispetto al video. «Sarei d’accordo, ad esempio, che ci fosse Radio Radicale - sottolinea -, perché sono convinto che la diversità del mezzo sia garanzia di una diversa gestione delle informazioni ricevute. In ogni caso, sono contento che ci siano posizioni diverse, sostenute da colleghi che stimo, perché questo potrebbe fungere da stimolo per altri avvocati a trovare una posizione di sintesi. La verità, d’altronde, sta sempre nel contraddittorio».