Indignazione e profonda amarezza. Sono questi gli stati d’animo espressi da 224 assistenti sociali, che in una lettera indirizzata alla presidente nazionale Barbara Rosina e per conoscenza all’ordine dell’Emilia Romagna hanno chiesto di ritirare la richiesta di risarcimento nei confronti di Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, dopo la debacle del processo “Bibbiano” sui presunti affidi illeciti, conclusosi il 9 luglio scorso con una valanga di assoluzioni. I due sono stati infatti condannati solo per due reati marginali con pena sospesa, venendo assolti rispettivamente da 56 e 32 capi di imputazione a testa.

Una diapositiva chiara del crollo di un’inchiesta che ipotizzava un sistema illecito completamente smentito dalla sentenza, dove tutti i fatti oggetto di capo d’imputazione - eccetto uno - sono stati cancellati in quanto ritenuti insussistenti o perché non costituenti reato. Nonostante ciò, il Consiglio nazionale dell’Ordine ha deciso di rivalersi in maniera “simbolica” su Anghinolfi e Monopoli, vittime - insieme a tutti gli altri imputati - di una gogna mediatica senza precedenti nella storia recente d’Italia. Un processo lungo 142 udienze - per giunta praticamente senza testimoni della difesa, data la rinuncia degli stessi legali -, dal quale sono emersi elementi sufficienti a «garantire alla collettività la loro professionalità, trasparenza e specchiatezza». Rispetto, inoltre, all’accertamento dell’eventuale sussistenza di violazioni del Codice deontologico, gli assistenti sociali sottolineano come la presenza del legale di parte civile incaricato dall’Ordine nazionale «è stata garantita in un numero irrisorio di udienze», cosa che dunque non consentirebbe alla stessa di farsi «una qualsivoglia idea rispetto ai complessi contenuti emersi chiaramente in sede processuale». La vicenda, sottolinea la lettera, «ha avuto e continuerà ad avere un’influenza mai rilevata in precedenza», così come sottolineato anche da Claudio Cottatellucci, Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia (Aimmf), secondo cui nonostante le assoluzioni «restano gli effetti di attacco e denigrazione sistematica dell’istituto giuridico dell’affidamento», in particolare la «perdita di fiducia da parte della collettività nel sistema del sostegno pubblico a protezione dell’infanzia e nel sistema della giustizia minorile e di famiglia». Gli assistenti sociali esprimono dunque «un senso di profondo sgomento e inquietudine in merito al motivo di tale inchiesta e, soprattutto, al coinvolgimento dei media in una attività di discriminazione della professione senza precedenti». Il tutto in spregio al principio costituzionale della «presunzione di innocenza», il cui rispetto «avrebbe salvato non solo i colleghi dalla “gogna” e dal cordone sanitario, ma anche l’immagine della nostra professione e il nostro operato».

Non sono, dunque, gli assistenti sociali finiti a processo «i responsabili della “perdita di onorabilità” della professione», stando alla sentenza. «Occorrerebbe, invece, analizzare profondamente quanto è accaduto, perché qualcosa di molto grave è successo su altri piani. E noi dove eravamo? - si chiedono i firmatari - Che ruolo abbiamo avuto attraverso il Cnoas?». L’Ordine nazionale, continua la lettera, avrebbe dovuto garantire «una presenza volta all’ascolto, alla comprensione dell’accaduto e alla raccolta di informazioni sul piano tecnico e professionale e non solo ad una “corretta ricostruzione delle vicende processuali” dal punto di vista squisitamente legale». Un appunto, infine, rispetto alla domanda risarcitoria, già contestata in passato dagli assistenti sociali che si sono dichiarati non disponibili a ricevere soldi dai colleghi finiti a processo: «Chiediamo non solo di ritenere completamente superate qualsiasi richiesta di risarcimento - concludono -, ma di valutare, altresì, la promozione di una raccolta fondi nazionale a favore dei colleghi ingiustamente accusati che sono stati costretti, al fine di difendere la propria innocenza e il proprio corretto operato a tutela di minori in gravissime difficoltà, a contrarre debiti e cedere la proprietà delle proprie abitazioni».