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«Questa settimana mi sembra ideale per gli audio… quello del lupo… quello dei compiti in classe, del sesso con mamma e papà… tre o quattro devono partire». A parlare è un carabiniere del Comando provinciale di Reggio Emilia. È l’8 luglio 2019, ore 10.56. Il blitz dei carabinieri nell’ambito dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza è scattato da poco meno di un mese e l’intera Italia è sconvolta dai particolari emersi dall’ordinanza di custodia cautelare, finiti quasi integralmente sui giornali.
Ma ci sono ancora molti dettagli rimasti nascosti nelle carte e nei file in possesso degli inquirenti. Le indagini sono ancora in corso e quel giorno un militare sta chiamando uno degli indagati dell’inchiesta Angeli&Demoni. Il telefono squilla a vuoto, ma la registrazione autorizzata dal gip è già partita. Sono 29 secondi, il militare sta parlando con un collega la cui voce rimane sullo sfondo. E l’impressione, almeno per i difensori, è che si stia programmando un invio scientifico di audio alla stampa, che pochi problemi si è fatta a mettere in piedi quel processo mediatico che ha caratterizzato l’intera vicenda.
A consegnare quell’audio al collegio sono stati Oliviero Mazza e Rossella Ognibene, difensori di Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza e principale imputata nel processo. Ai quali si sono associati tutti i colleghi e, in particolare, Giovanni Tarquini, avvocato del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, che già in passato aveva tentato di capire quale fosse il canale tra inquirenti e stampa, date le fake news diffuse sul suo assistito, in particolare in relazione al presunto furto di minori di cui si sarebbe reso responsabile assieme «all’elettroshock» (in realtà mai avvenuto).
La questione è spinosa, perché sintomo - nell’ottica difensiva - delle violazioni che avrebbero caratterizzato l’intera vicenda. Il deposito è avvenuto a inizio udienza e solo al termine della prima parte, attorno alle 13, l’ufficiale di pg che ha svolto le indagini ha fatto ingresso in aula con un foglio. Si tratta di un documento, con tanto di timbro e data dell’8 luglio 2019, timbro che però non è segnato da alcuna firma. Per la pm Valentina Salvi oggetto di quella conversazione era soltanto la trasmissione delle intercettazioni all’ufficio Cit della procura - ovvero il Centro intercettazioni telefoniche, dove sono collocate le sale d’ascolto e gli apparati elettronici e informatici per le attività di intercettazione e di archiviazione dei file -, atto che non è obbligatorio, ha sostenuto, depositare nel fascicolo del pm.
Ma la difesa di Anghinolfi ha respinto al mittente la spiegazione: «Quando nell’intercettazione si dice “questa è la settimana ideale per gli audio, 3 o 4 devono partire”, non può essere il preannuncio di un deposito ufficiale delle intercettazioni, anche perché a tutto concedere, se anche così fosse, dovremmo interrogarci sulla possibilità della pg di selezionare audio - ha detto Mazza -. Tre o quattro devono partire, come dire: tutti gli altri invece non partono». La trascrizione di quell’audio, dunque, è importante per valutare l’attendibilità di uno dei principali testi d’accusa, il maresciallo Giuseppe Milano, che secondo la difesa sarebbe il protagonista di quell’audio. Ma Mazza ha sollevato anche un’altra questione, già discussa in udienza preliminare: l’incompletezza del fascicolo pm.
«Tutte le note di trasmissione del pg al pm non possono non essere comprese nel fascicolo d’indagine. Questa è la riprova di ciò che abbiamo sempre detto - ha sottolineato -, ovvero la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini perché il fascicolo, ad oggi, è ancora incompleto. La domanda che questa difesa si pone è: cosa dobbiamo aspettarci dal fascicolo del pm, ci sono altri atti che non conosciamo, altri atti, magari favorevoli alla difesa, che non sono stati depositati? Rimane valida la richiesta della difesa di trascrizione, nonostante la nota del pm, proprio perché inconferente con il tenore letterale dell’intercettazione che vorremmo trascrivere, ma segnaliamo ancora una volta la nullità non solo dell’avviso di conclusione indagini, ma anche della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio, quindi la sequenza di atti propulsivi per l’incompletezza del fascicolo del pm. Finché è incompleto noi non sapremo mai cosa è rimasto fuori dal fascicolo e questo per la difesa è destabilizzante». Una puntualizzazione che trova d’accordo Tarquini. «Quando l’ascolterete - ha spiegato - emergerà la totale incompatibilità tra un atto di trasmissione, ammesso che ci sia stato, e il contenuto e il riferimento al portar fuori “3 o 4” che è incompatibile con un atto di deposito formale». Ma per l’accusa tutto è avvenuto nel rispetto del codice di procedura: «È stata seguita la normativa in materia di intercettazioni, telefoniche o ambientali che siano».
Durante l’ultima udienza è stato ascoltato a lungo l’ex comandante della Stazione dei Carabinieri di Bibbiano, Andrea Berci, che ha negato di aver mai sentito parlare di «setta di pedofili», riferendosi invece a «persone che potevano avere intenti di questo tipo». Inoltre, parlando dell’assistente sociale Francesco Monopoli, ha chiarito di non aver mai ricevuto pressioni da parte sua. «Lo avrei cacciato dalla caserma - ha sottolineato -. Non c’era alcuna possibilità che lui potesse fare delle pressioni. Non ho mai avuto motivo di pensare che aggiustasse la realtà - ha aggiunto -. Né ha mai chiesto di bonificare dalle cimici dei locali. Mi sarei alzato e sarei andato in procura». Quello con Monopoli era «un rapporto professionale esteso», ha evidenziato. «Lui con me ci parlava volentieri. Si è sempre dimostrato accorato e tendente al bene, per cercare di risolvere nel modo giusto la situazione. Lui con me si sfogava, mi ha detto più di una volta: “non me ne frega nulla se anche tu un giorno mi tradirai e mi dirai che sono un bandito, ma sei rimasto solo tu e basta”». Ma non solo. Berci ha anche raccontato la vicenda relativa a Martina (nome di fantasia), che il 7 giugno del 2016 chiamò i carabinieri affermando di essere stata lasciata sola dai genitori. «La famiglia, per quanto mi riguarda, era in particolare difficoltà», ha ricordato, riferendosi ad un precedente intervento presso l’abitazione, «che era un disastro: la signora aveva distrutto tutto - ha evidenziato -. Sosteneva davanti alla figlia che fossero stati sottratti dei soldi dal marito», circa 5mila euro. Il militare intervenuto in quel caso mise in allerta Berci. «Mi disse: fa attenzione, perché la famiglia è in uno dei suoi momenti particolari».
Il 7 giugno 2016 ad intervenire furono il brigadiere Romeo Tanchis e il carabiniere Giorgio Biccirè, ai quali Berci vietò di entrare in casa in assenza dei servizi. «Non avrei lasciato la bambina un’ora con i colleghi o con la porta aperta o a girare per il giardino come era solita fare. Detto ciò, anche se l’atteggiamento del padre era migliore di quello della madre, siccome faccio il carabiniere secondo me era un reato da caricare (sic.) entrambi. La madre era fuori da almeno un giorno - ha aggiunto - perché aveva una relazione con un altro uomo, quindi prendeva corpo l’idea che il padre fosse volontariamente uscito di casa per lasciarla sola, infatti le aveva detto di chiamare il 112. Era evidentemente aumentata la pressione interna alla famiglia».
Il padre si era lamentato con Berci del fatto che i servizi non consegnassero i suoi regali alla bambina. Ma uno scambio di messaggi tra Berci e Monopoli smentisce tale volontà: «Il 3» il padre «vedrà la bambina, può darglieli lui», aveva scritto l’assistente sociale. Le difese hanno messo in evidenza la forte conflittualità tra i coniugi e anche le reciproche denunce, tra le quali quella in cui la moglie sosteneva di essersi «dovuta prostituire perché il marito non provvedeva alle necessità familiari». Ascoltata, nel pomeriggio, anche l’assistente sociale Cinzia Magnarelli - che l’avvocato Nicola Canestrini, difensore di Monopoli, aveva chiesto di considerare inattendibile, date «le modalità fortemente suggestive o nocive adottate dagli inquirenti» nell’interrogatorio del 4 settembre 2019. Magnarelli - che ha già patteggiato la pena - ha parlato di «disaccordi», più che di pressioni, pur ricordando un episodio in cui Anghinolfi avrebbe minacciato un ordine di servizio.
L’assistente sociale ha sottolineato, tra le altre cose, di essersi rifiutata di parlare di «stupro» nel corso di un convegno in relazione al caso di una ragazzina, come invece richiesto da Anghinolfi per smuovere le coscienze. Caso che si è concluso con una condanna a 4 anni e 8 mesi a carico di un padre, che stando all’accusa aveva costretto la bambina a «subire atti sessuali». Il capo d’accusa è proprio «violenza sessuale». Insomma, uno stupro.