Una testimonianza infarcita con intercettazioni non ancora ammesse dal Tribunale, “videoproiettate” con sottotitoli che altro non sono se non brogliacci della polizia giudiziaria. E poi un documento privato, appunti personali la cui lettura è stata autorizzata alla stregua di atti a firma della pg. È quanto accaduto a Reggio Emilia, nel corso del processo “Angeli & Demoni” sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un processo caratterizzato da un’accesissima dialettica tra accusa e difesa e da continui colpi di scena processuali, con scelte procedurali che hanno destato più volte le lamentele delle difese. Il tutto con un calendario fittissimo di udienze - due a settimana, il lunedì e il mercoledì -, nonostante tale processo non rientri, stando alle previsioni di legge fissate dall’articolo 132 bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, tra quelli prioritari.

Ascoltate intercettazioni ancora non acquisite

Ad essere ascoltato come primo teste dell’accusa, rappresentata dalla pm Valentina Salvi, è il maresciallo Giuseppe Milano, colui che indagò sul sistema degli affidi. Una testimonianza, la sua, intervallata dall’ascolto delle conversazioni intercettate nel corso delle indagini. Si tratta di audio poco nitidi, tanto da rendere necessario l’utilizzo dei sottotitoli. E qui, secondo le difese, si pone il primo problema: i testi proiettati sono infatti ricavati dai brogliacci di ascolto. Si tratta, dunque, di atti di indagine, in un momento in cui ancora le stesse intercettazioni non risultano trascritte da un perito e, dunque, non ancora acquisite in dibattimento. Un punto sul quale le difese hanno avanzato un’eccezione, respinta però dallo stesso Tribunale.

Ma il fatto è reso ancora più eclatante da un altro particolare: i giudici, infatti, non si sono ancora pronunciati sull’utilizzabilità di quelle intercettazioni, che la pm ha chiesto di acquisire come «corpo di reato». Le difese hanno sollevato un problema di utilizzabilità: le captazioni erano state infatti disposte per un tipo di reato, mentre l’accusa vorrebbe utilizzarle per altri, alcuni dei quali non ricadono nei limiti previsti dall’articolo 266 del codice di procedura penale, risultando dunque non intercettabili. Giovanni Tarquini, difensore del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ha evidenziato, a titolo d’esempio, che i limiti edittali dell’abuso d’ufficio - reato contestato al suo assistito - non prevedono le intercettazioni. Ma secondo la pm Salvi, essendo numerosi i reati contestati, «alcune parti delle intercettazioni possono essere inutilizzabili per una fattispecie, ma rilevanti per un’altra».

Per superare lo stallo, la pm ha affermato che tali intercettazioni rappresenterebbero corpo di reato: si tratta infatti, in alcuni casi, delle sedute di psicoterapia svolte presso il centro “La Cura”, considerate lesive dell’integrità dei minori. «Un’interpretazione a dir poco analogica - ha evidenziato il professore Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi -. Il corpo del reato è la cosa sulla quale o mediante la quale si commette il reato, un’intercettazione non può essere nulla di tutto ciò, è solo la prova di quello che accade». Il Tribunale si è dunque riservato sull’acquisizione delle intercettazioni, che però sono state comunque “utilizzate” - nonostante siano sotto riserva di ammissibilità - nel corso della testimonianza di Milano.

Gli appunti in aula

Ma non solo. Il maresciallo si è presentato in aula non con le informative e gli atti a sua firma - documenti che gli ufficiali di pg sono autorizzati a consultare durante le loro testimonianze -, ma con degli appunti personali, come confermato dallo stesso su richiesta dei difensori. Appunti che non fanno parte degli atti di indagine e il cui utilizzo è stato, dunque, contestato dalle difese. I giudici, dopo 30 minuti di camera di consiglio, hanno concluso che quegli appunti, in quanto atti comunque a firma dell’operante, sono utilizzabili, benché si tratti di «un atto privato del testimone», consentendone la consultazione - a posteriori - agli avvocati. «Ma la differenza tra l’atto processuale e l’atto privato è evidente - contesta Mazza -. Si tratta, di fatto, di un documento privato letto durante l’udienza».

La testimonianza

La testimonianza di Milano pone, comunque, delle questioni. La tesi dell’accusa è, infatti, che gli affidi fossero “forzati” per garantire un ritorno economico a famiglie affidatarie e psicoterapeuti. Da qui la contestazione del dolo, che però dalla stessa testimonianza viene quantomeno messo in dubbio. Milano ha infatti confermato la convinzione, da parte degli imputati, dell’esistenza di una “setta di pedofili” operante in Val d’Enza, dalla quale erano intenzionati a proteggere i bambini. Tant’è che è stato lo stesso maresciallo, in udienza, a dire che il fine de “La Cura” era quello di curare i bambini. Delle due, dunque, l’una: o si trattava di un’operazione programmata a tavolino per far guadagnare qualcuno, con un movente economico, o si aveva a che fare con il tentativo di proteggere i bambini da una ipotetica setta. Elemento che farebbe venir meno l’elemento soggettivo del reato contestato.