A me il risultato elettorale del 4 marzo non è piaciuto. Avrei preferito un risultato molto diverso e ci sono rimasto male. Però non ho detto, né tantomeno scritto, che l’Italia - l’Italia che ha scelto Di Maio e Salvini - è un paese di farabutti. Né, il giorno dopo la sentenza di Palermo sulla trattativa Stato- mafia ( che considero una sentenza ingiusta e infondata) ho detto o scritto che i giurati e i magistrati che l’hanno sottoscritta sono dei venduti o dei manigoldi.

Nella vita, privata e pubblica, ci sono degli avvenimenti che ci innervosiscono, magari, ma questo non dovrebbe autorizzarci a dare in escandescenze.

Invece la sentenza che ha riabilitato Silvio Berlusconi - restituendo, tra l’altro, al paese, un protagonista della nostra vita politica recente - è stata accolta dal Fatto Quotidiano con una vera e propria crisi di nervi. L’altro giorno ha titolato a caratteri di scatola, in prima pagina: “Berlusconi delinquente era e delinquente resta”. Non riesco a ricordare nessun precedente. Cioè nessun grande giornale nazionale, in Occidente, che ricorra a questo linguaggio per dare sostanza e pepe alla polemica. Ve lo immaginate il New York Times, dichiaratamente clintoniano, che dà del truffatore, nel titolo di apertura, a Trump o qualcosa del genere? O la Cnn che definisce Bill Clinton un maniaco sessuale?

L’altra sera Marco Travaglio ha insistito in Tv, sulla Sette. Ha definito Berlusconi “tecnicamente” un delinquente. Ripetendo a voce il titolo del suo giornale. Perché delinquente?

Perché Travaglio sostiene che, sebbene il tribunale lo abbia riabilitato, essendo stato condannato in via definitiva per il reato di evasione fiscale, è comunque un delinquente, in quanto l’evasione fiscale è un reato, e dunque un delitto. Giustamente il direttore del Giornale, Sallusti, con molta calma gli ha risposto che essendo stato lui stesso - cioè Travaglio - condannato più volte per diffamazione, può essere tranquillamente definito un diffamatore. Poichè anche la diffamazione è un reato, probabilmente sarebbe corretto anche definire lo stesso Travaglio delinquente. Del resto anch’io sono stato condannato per diffamazione, e quindi anch’io posso essere definito diffamatore o delinquente. Credo che pos- sano esserlo anche Sallusti e la stragrande maggioranza di coloro che hanno diretto un giornale o svolto il lavoro di giornalista giudiziario. Qualcun altro magari potrebbe essere definito addirittura “tecnicamente omicida” se è stato condannato per un incidente mortale. E così via.

Serve a qualcosa usare gratuitamente le ingiurie per arricchire e rendere attraenti i propri ragionamenti? Francamente credo di no. Non sono tra quelli che immaginano la polemica e la lotta politica come un affare di galateo. Capisco perfettamente le asprezze, che spesso sono la conseguenza della passione e di convincimenti profondi. Ma una cosa è l’asprezza di un confronto tra persone che hanno idee molto diverse, e che si fronteggiano, un’altra cosa è l’ingiuria a tavolino, preparata con freddezza, con calcolo, che serve solo a delegittimare l’avversario, e cioè a combattere le sue idee - o la sua posizione politica - infangando la sua persona e danneggiando la sua dignità. Mi chiedo: chi sono i principali responsabili di questa deriva - un po’ barbara - che sta prendendo il dibattito pubblico? Naturalmente molto dipende dalla profonda trasformazione che negli ultimi quarant’anni ha investito il ceto politico. Aldo Moro, o Fanfani, o Saragat, o lo stesso Berlinguer, di solito, dicevano “convergenze”, o “dissenso”, o “approccio”. Beppe Grillo ( che è un po’ il padre della nuova maggioranza) più frequentemente dice “vaffanculo” o “vi vomito”. Ma non è il solo: anche Renzi, o Berlusconi, o Brunetta, per non dire Sgarbi, hanno un buon rapporto con la parolaccia, l’invettiva gratuita, l’intervento a gamba tesa. E del resto, persino nella prima Repubblica, non mancavano i personaggi rudi, soprattutto nel Pci, nel Msi, ma anche nel Psi ( Craxi non era un tipo tenero né esageratamente diplomatico…).

E tuttavia non credo che siano i politici i responsabili principali della “ Repubblica dell’Insulto”. I responsabili principali sono i giornalisti, che molto più dei politici influenzano l’opinione pubblica, e da quando sono diventati personaggi televisivi brillano per la durezza del linguaggio che sostituisce gli argomenti, la conoscenza dei fatti, l’uso della logica. I giornalisti considerano ormai l’approdo ai talk show la loro missione principale, e nel talk show

immaginano di dover tralasciare qualunque principio dell’informazione e di doversi trasformare in attori, in saltimbanchi, in gladiatori. Il più delle volte, tra l’altro, lo fanno senza che il presunto avversario ( il bersaglio delle loro contumelie) sia presente, e questo rende anche più semplice il loro lavoro.

Questo atteggiamento provoca un effetto- emulazione drammatico. Perché influenza gli stessi politici e soprattutto influenza in modo travolgente i social, che ormai sono diventati un luogo dove se non insulti nessuno sei un cretino. Dopodiché i social, a loro volta, influenzano i giornalisti e i politici. E diventa una spirale infernale.

Chissà se l’ordine dei giornalisti avrà voglia, un giorno, di occuparsi di questo tema. O se invece assisterà impotente al degenerare della nostra professione, e al suo trasformarsi in arte dell’offesa e non più della conoscenza.

IL LINGUAGGIO DELL’INGIURIA CHE SOSTITUISCE LA POLEMICA E IL RAGIONAMENTO.

COLPA DEI POLITICI?

COLPA DEI SOCIAL? NO, SOPRATTUTTO COLPA DEI GIORNALISTI