Per otto anni si è dovuto difendere nelle aule giudiziarie da una accusa infamante, quella di aver compiuto abusi sessuali ripetuti sulla figlia tredicenne della sua compagna. Per otto anni, soprattutto, ha dovuto affrontare il giudizio della gente che lo ha ritenuto colpevole prima della sentenza. Un’onta che ha pesato come un macigno sulla sua condizione psicofisica e che gli ha provocato uno stato ansioso e frustrante oltre a causare uno sconvolgimento della sua routine familiare. Alla fine di un lungo percorso giudiziario, condizionato dal peso di una accusa così grave, il suo calvario si è concluso con una sentenza di assoluzione con formula piena emessa dalla quarta sezione del tribunale penale di Catania, città dove sono avvenuti i fatti.

I giudici della sezione (Alba Sammartino, Silvia Passanisi e Dora Anastasi) hanno ricostruito le accuse che partono da lontano, dal 2014, anno in cui la giovane ha sporto denuncia cominciando a raccontare presunti numerosi episodi di violenza perpetrati dal patrigno. La giovane ha raccontato prima le avance dell’uomo, poi i continui approcci sessuali e le minacce subite davanti ai suoi tentativi di respingerlo. Sulla base di queste accuse s’è mossa la macchina giudiziaria che, però, è andata avanti con lentezza estenuante, come rileva il difensore dell’imputato, Pietro Ivan Maravigna, del Foro di Catania.

Il legale ha fatto notare come nonostante a suo tempo il Gip avesse rigettato la richiesta di custodia cautelare del suo assistito, asserendo che non c’erano presupposti di veridicità nei racconti della ragazza, la Procura ha continuato ad insistere. «Per cui - ha puntualizzato il legale - siè andati a giudizio, ma successivamente è cambiato un mare di volte il Collegio e infine è subentrata la sospensione per il Covid. Quindi nonostante questo processo fosse un “Codice rosso” si è andati avanti celebrando un mare di udienze con moltissimi testimoni».

Al termine di questo lungo excursus i giudici della quarta sezione hanno ricostruito tutto il castello accusatorio, dal quale, però, sono emersi contorni talmente lacunosi, non avvalorati dai riscontri degli inquirenti, che hanno fatto emergere elementi di perplessità. Le dichiarazioni della ragazza alla fine sono state smentite dalle risultanze delle indagini, compreso l’episodio in cui l’imputato avrebbe mostrato alla ragazza immagini pornografiche sul suo telefonino, poi non riscontrate dagli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia postale di Catania sul cellulare dell’imputato. Per questo, alla fine del dibattimento, la sezione penale del tribunale ha rilevato come tutti i fatti «trovino fondamento essenzialmente, sulle dichiarazioni della persona offesa» e hanno quindi scritto nella sentenza che «la valutazione complessiva degli elementi di perplessità che si addensano sulle dichiarazioni della minorenne, fonte pressoché unica delle accuse, conduce questo Tribunale ad emettere, come richiesto dallo stesso pm, sentenza di assoluzione nei confronti dell’imputato perché il fatto non sussiste».

Alla soddisfazione dell’imputato fa, però, da contraltare l’amarezza del suo legale, che, alla lettura del dispositivo, ha ribadito ancora una volta come un processo di tale delicatezza sia dovuto durare otto anni prima di giungere a una sentenza di assoluzione. «Da una vicenda come questa - ha concluso l’avv. Maravigna - dobbiamo tutti trarre il necessario insegnamento: la giusta repressione di condotte violente e di abuso nei confronti di soggetti appartenenti a fasce deboli non deve farci mai derogare dai principi garantistici dello Stato di diritto. Una denuncia, si è visto, può essere una falsa denuncia e può distruggere la vita di un individuo ingiustamente accusato. Gli enormi danni morali che derivano da un processo di questo genere non potranno mai essere risarciti dalle risibili somme che lo Stato riconosce per la lunghezza dei processi con la legge “Pinto”. Per cui come già detto alla lettura del dispositivo il mio assistito ha poco da festeggiare per una giustizia che arriva con otto anni di ritardo».