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La condanna penale non basta, da sola, a distruggere una carriera. Si può riassumere così la sentenza depositata dalla Corte costituzionale, che, giustamente, considera eccessivo l’automatismo che porta alla rimozione di un magistrato per una condanna con pena non sospesa, senza valutare la proporzionalità della sanzione rispetto al reato commesso e spogliando della propria discrezionalità l’organo disciplinare.
Il ragionamento, dice ancora la Corte, si può estendere a tutti i funzionari pubblici. E anche se la vicenda in questione affronta una conseguenza perenne, proporre un parallelismo con la legge Severino - che impone una conseguenza momentanea alla condanna, ovvero la sospensione - non sembra un esercizio vuoto. Per una semplice ragione: l’interruzione del mandato elettivo a seguito di un condanna - che spesso viene poi ribaltata e cancellata dopo anni e anni di processi elefantiaci - equivale nella maggior parte dei casi ad un’espulsione definitiva dalla vita politica. Certo, la cosa non è scientifica. C’è chi ce la fa a riprendersi ciò di cui è stato ingiustamente privato e c’è chi non ne ha la forza. La verità, dunque, è semplice: è necessario aprire una riflessione sugli effetti di una norma che mette tra parentesi la presunzione d’innocenza.
Una riflessione che la Consulta ha già fatto, ne siamo consapevoli, dando ragione al legislatore. Ma la posta in gioco è altissima. Con la sua sentenza, la Corte costituzionale non fa che chiedere prudenza e misura quando vengono applicate le conseguenze secondarie di una condanna penale. Ed è su questa prudenza e questa misura che la politica dovrebbe riflettere, bilanciando l’esigenza di garantire l’integrità del processo democratico, la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione con l’esigenza costituzionale di considerare tutti gli individui uguali davanti alla legge. Una legge che, fino a sentenza definitiva, ci vuole anche tutti presunti innocenti.