PHOTO
MATTEO RENZI POLITICO SULLO SCHERMO GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Erano tre le grandi riforme promesse dal governo ma due sole passibili di rovesciamento a opera del voto popolare. L'autonomia differenziata non necessita di referendum approvativo anche in assenza dei due terzi dei consensi in Parlamento essendo non riforma costituzionalke ma applicazione di una riforma precedente: quella varata con risultati disastrosi nel 2001 dal centrosinistra che ancora non ha chiesto scusa e sarebbe necessario. Fra le altre due solo una, la separazione delle carriere dei magistrati che ha incassato ieri la terza approvazione sulle quattro necessarie, finirà nelle urne in questa legislatura. L'altra, il premierato, pur essendo la più importante di tutte, "madre di tutte le riforme", e dunque a lume di logica la prima da far arrivare in porto sarà sottoposta a referendum solo nella prossima legislatura. Non era questa l'intenzione di Giorgia Meloni all'inizio della legislatura. Ha cambiato cavallo in corsa.
La logica di questa illogica inversione delle priorità sembra evidente. Il premierato è la sua riforma. Il referendum sarebbe diventato inevitabilmente un plebisicito sul suo nome. Se sconfitta si sarebbe ritrovata anatra zoppa in un battibaleno. La riforma della giustizia invece è farina del sacco azzurro. Il calcolo di Giorgia deve essere stato tra i più classici: «Se si vince, vinciamo tutti e io per prima. Se si perde, perde solo Forza Italia».
Se davvero è stato questo il ragionamento che ha convinto palazzo Chigi a puntare sulla separazione delle carriere invece che sul premierato, è stato anche tra i più miopi.
Il referendum che prevedibilmente sarà celebrato nella prossima primavera dopo l'approvazione finale della riforma al Senato in ottobre, sarà sul governo persino più di quanto sarebbe successo col premierato.
Le carriere dei dei magistrati sono argomento ostico per la stragrande maggioranza degli elettori che ne sanno poco e ne capiscono meno.
Si pronunceranno a favore dell'uno o dell'altro in uno scontro che si presenta in prima battuta tra il centrodestra e le toghe, trascurando il merito della riforma. La magistratura non gode oggi della popolarità di un tempo ma non significa che non vanti ancora un notevole sostegno popolare. L'esito della sfida sarebbe comunque tutt'altro che scontato ma la posta in gioco è già diventata anche più alta. Il centrosinistra chiamerà al voto contro il governo e proprio per questo si compatterà alla base più ancora che al vertice.
C'è e ci sarà chi, dopo aver insistito per anni e anzi per decenni sulla necessità di separare le carriere voterà contro la separazione per "mandare a casa Meloni e i nuovi fascisti". I leader della destra invocheranno un voto in difesa del governo e probabilmente ci sarà chi in altre circostanze si sarebbe schierato senza pensarci due volte per i togati, in nome della legge e dell'ordine, ma voterà contro di loro in nome del governo.
Delle carriere sin qui non si è praticamente fatta parola e anche in futuro se ne sprecheranno ben poche. Le bandiere e gli argomenti, nella prolungata campagna referendaria che ci aspetta, saranno altri anche se inevitabilmente il ruolo della magistratura dovrà essere tirato in ballo.
I nemici della riforma diranno con forza crescente quel che già urlano da mesi, e cioè che la riforma mina l'autonomia della magistratura. Non a caso nessuno spiega mai come e perché la separazione renderebbe il potere togato asservito a quello esecutivo, al governo. La spiegazione latita per il semplice motivo che in sé la separazione delle carriere non sfiora neppure l'autonomia della magistratura. E' vero in compenso che, dato il carico simbolico di cui è stato rivestito il referendum, l'approvazione popolare della riforma toglierebbe alla magistratura molto potere senza però eliminarne l'autonomia.
Il governo cercherà di spostare il terreno dello scontro dalle toghe all'immigrazione e alla sicurezza, i suoi cavalli di battaglia, accusando "la magistratura politicizzata" di ostacolare a freddo l'operato del governo in particolare nel contrasto all'immigrazione clandestina. Insomma, proverà a far passare il messaggio secondo cui la sconfitta della separazione implicherebbe spalancare le porte all'immigrazione illegale.
Sono argomenti di forte presa sia gli uni che gli altri e motiveranno tutti e due i rispettivi elettorati. La sfida è incerta e la preoccupazione in via Arenula e a palazzo Chigi è già molto alta. La sconfitta non imporrebbe a Giorgia Meloni le dimissioni come fu per Renzi ma l'handicap in vista delle successive elezioni politiche sarebbe pesantissimo. Non è che Elly e Conte rischino di meno però: se battuti al referendum inizierebbero a dover temere per le prossime politiche non solo la sconfitta ma una scomposta rotta.